van Sergeevič Turgenev (1818–1883) non è stato solo uno dei grandi narratori del realismo russo, ma anche un poeta dell'anima, capace di dar voce alle sfumature più intime del sentimento. Benché celebre per i suoi romanzi e racconti – da Padri e figli a Memorie di un cacciatore – è nei poemetti in prosa, da cui sono tratti i testi seguenti, che la sua vena lirica ha trovato un'espressione sorprendente: breve, frammentaria, eppure densa di nostalgia, malinconia, visioni. Scritte tra il 1878 e il 1882, queste prose poetiche sono lampi di memoria, sogni ad occhi aperti, confessioni interiori; piccoli quadri nei quali si fondono delicatezza descrittiva e riflessione esistenziale. ✦
COM'ERAN BELLE E FRAGRANTI LE ROSE
Non ricordo dove io lessi una volta, or è molto tempo, una poesia. Presto me ne dimenticai... ma il primo verso m'è sempre rimasto in mente:
Com'eran belle e fragranti le rose...
Ora è inverno; il freddo ha ghiacciato i vetri delle finestre; nella camera buia arde una sola candela. Mi siedo, mi rannicchio in un angolo; e nella testa mi risuona sempre quel verso:
Com'eran belle e fragranti le rose...
Mi rivedo dinanzi a una bassa finestra in una casa russa fuori di città. Trascorre lentamente la sera estiva e cede alla notte; nell'aria calda c'è una fragranza di reseda¹ e di tiglio. Alla finestra, appoggiata sul braccio disteso, la testa china sulla spalla, siede una fanciulla, e guarda fisso il cielo quasi attendendo l'apparizione delle prime stelle. Come candidamente ispirati quegli occhi pensosi, come teneramente innocenti quelle labbra dischiuse e incantate, come uniforme al respiro il suo seno non del tutto sbocciato, non ancora turbato da nulla, come tenera e pura è l'immagine di quel giovine volto! Io non oso parlarle, ma come essa mi è cara, come batte il mio cuore!
Com'eran belle e fragranti le rose...
E nella camera si fa sempre più buio e più buio... Crepita l'arsa candela, ombre fugaci s'agitano sul basso soffitto, scricchiola il gelo, e fin le ghiacce pareti par che ripetano il noioso bisbiglio d'un vecchio...
Com'eran belle e fragranti le rose...
Mi stanno dinanzi altre tre immagini... S'ode l'allegro trambusto della vita familiare, paesana. Due testoline bionde, piegate l'una sull'altra, mi guardano ardite coi loro occhietti lucenti; le guance rosee sono scosse da un riso di gioia, le mani s'intrecciano amorevoli, di tratto in tratto risuonano voci giovani e buone. E un po' più in là, nel fondo della cameretta, si muovono leste altre giovani mani, facendo scorrere le dita sulla tastiera d'un vecchio piano, e il valzer di Lanner² non riesce a coprire il brontolio del patriarcale samovar.
Com'eran belle e fragranti le rose...
La candela si fa fioca e si spegne... Chi è quegli che tossisce laggiù, sì rauco e cupo? Raggomitolato e tremante giace ai miei piedi il vecchio cane, l'unico mio compagno... Ho freddo... mi gelo... Essi son tutti morti... tutti morti...
Com'eran belle e fragranti le rose...
Settembre 1879.
1. reseda: (il nome italiano è Amorino giallo). Si tratta di una pianta dal fusto ramoso fin dalla base, i cui fiori gialli, di poca apparenza, stanno in un grappolo conico. Si trova nei luoghi incolti, nei campi e fiorisce quasi tutta l'estate.
2. Joseph Lanner (1801–1843) – pioniere viennese del valzer romantico, maestro e predecessore di Johann Strauss padre – è noto per aver trasformato questa danza da forma popolare rustica in musica da salotto borghese e da concerto.
Il poemetto si apre con un movimento tipico della memoria involontaria: «Non ricordo dove io lessi una volta [...] una poesia». La dimenticanza non è totale: resta una sola riga, una sola immagine verbale – Com'eran belle e fragranti le rose… – che agisce come un sortilegio. Non è tanto il contenuto del verso a contare, ma la sua potenza evocativa: è la chiave che apre la porta del ricordo.
La scena presente è dimessa, invernale, "la camera buia", il gelo, il lume morente. Ma proprio da questa povertà sensoriale sgorga il primo ricordo, una sera d'estate fuori città, con profumi, calore, attesa delle stelle: è la giovinezza, l'amore silenzioso, la timidezza, un cuore che batte. Non succede nulla, ma tutto è colmo di senso: lo sguardo della fanciulla, le labbra socchiuse, la tenerezza che avvolge ogni cosa.
Il refrain – Com'eran belle e fragranti le rose… – scandisce la prosa come un'eco ciclica, che ritorna ad ogni apparizione del passato, legandovi un comune destino: la dolcezza che fu, la perdita che è.
Segue un secondo quadro: la gioia familiare, il trambusto sereno della casa, la musica, i bimbi, le "voci buone", il samovar. È la Russia dell'infanzia, dei legami affettuosi, della vita semplice e calda. Ma anche qui il presente non partecipa: è solo ricordo, ed è già passato.
Infine, il ritorno al gelo: la candela si spegne, il cane trema, la solitudine è totale. La morte ha cancellato tutto ciò che era vivo. Rimane il cuore che ricorda – e la frase che torna, "Com'eran belle e fragranti le rose…", come un lamento, una preghiera, un ultimo sussurro.
Turgenev orchestra magistralmente un poemetto elegiaco in prosa, fondato non su un evento, ma su una voce interiore che cerca riparo nel passato. La rosa, segno epifanico della bellezza vissuta e perduta, è anche simbolo del tempo stesso: ciò che fiorisce, sfiorisce. La ripetizione del verso, come un basso continuo, una litania, conferisce al testo un tono musicale, di dolce e implacabile malinconia.
Non accade nulla, ma tutto accade: il tempo scorre e separa, l'anima resta sospesa a un'immagine che non muore. È un testo esemplare del Turgenev più lirico, dove ogni parola pesa come un petalo su un ricordo che non si può dimenticare.
L'inverno, il freddo, il buio, il silenzio: tutto ciò che è ora.
L'estate, la giovinezza, la vita, l'amore: tutto ciò che è stato.
E in mezzo, come unica sopravvivenza, la poesia.
La lirica di Turgenev, qui, non è artificio metrico, ma sguardo, vibrazione, sospensione del tempo. È il respiro dolente e grato di chi sa che nulla è eterno, e che proprio per questo vive ogni istante, ogni ricordo, ogni rosa, in modo intimamente sacro.
È un canto di grande essenzialità e nitore, motivo che conduce anche noi lettori a ritrovare in quelle stanze, con nostalgia pungente o con sommesso dolore, una voce perduta, un volto amico, un respiro fraterno che ci manca.
Una poesia non ricordata, ma ancora capace di far piangere l'anima.
UN BANCHETTO PRESSO L'ESSERE SUPREMO
Una volta l'Essere Supremo pensò di dare un grande banchetto nel suo celeste palazzo.
Tutte le virtù furono da lui invitate. Solo le virtù... di uomini non ne invitò... solo signore.
Se ne raccolsero molte, grandi e piccole. Le piccole virtù erano più piacevoli e gentili di quelle grandi; ma tutte parevano soddisfatte e conversavano affabili tra di loro come si deve tra parenti stretti e amici.
Ma ecco che l'Essere Supremo notò due bellissime dame che, a quanto sembrava, non si conoscevano affatto tra loro.
Il padrone di casa prese al braccio una di queste dame e la condusse verso l'altra.
«Beneficenza!» disse indicando la prima.
«Riconoscenza!» aggiunse indicando la seconda.
Entrambe le virtù si meravigliarono indicibilmente: da quando il mondo esisteva, ed esisteva da tanto tempo, era quella la prima volta che si incontravano!
Dicembre 1878
Questo breve poemetto ha la struttura limpida di una favola filosofica. L'ambientazione è dichiaratamente celeste, allegorica, un banchetto divino organizzato dall'Essere Supremo (che potrebbe essere Dio, ma anche una figura simbolica del Bene, o della Giustizia ideale). L'invito è rivolto esclusivamente alle Virtù – tutte femminili, secondo la lunga tradizione che personifica le virtù morali in forma di donne.
Fin dalle prime righe, però, si intuisce un sorriso ironico sotto il velo dell'elevazione. Le "piccole virtù", scrive Turgenev, sono "più piacevoli e gentili di quelle grandi" – osservazione leggera, ma affilata come una lama di seta: spesso, nella realtà, le grandi virtù (la Giustizia, il Coraggio, la Verità) risultano austere e distanti, mentre sono le piccole virtù quotidiane (la gentilezza, la discrezione, la modestia) a creare un tessuto di umanità condivisa.
Il cuore del racconto si manifesta nell'episodio finale, quando l'Essere Supremo si accorge di due dame che non si conoscono affatto: sono Beneficenza e Riconoscenza. E qui Turgenev svela la sua punta satirica – sottile ma inesorabile. Fin dalla creazione del mondo, le due non si erano mai incontrate: una riflessione tanto amara quanto vera sull'asimmetria delle relazioni umane. Fare del bene (Beneficenza) non implica automaticamente gratitudine (Riconoscenza), e viceversa. Anzi, il più delle volte, chi fa del bene non viene ringraziato, e chi ringrazia lo fa per qualcosa che forse non è mai stato davvero ricevuto.
Con una prosa lieve e precisa, Turgenev costruisce un apologo elegante e disilluso, dove l'etica quotidiana viene messa in scena come commedia degli equivoci tra dame ben vestite. Non c'è rabbia, né polemica diretta: solo constatazione, sottile, malinconica, ironica. E una straordinaria modernità: perché ancora oggi, nel nostro mondo iperconnesso e individualista, le Virtù spesso viaggiano sole, non si parlano, non si incontrano.
In poche righe, Turgenev riesce a sollevare domande fondamentali sul valore dei nostri gesti, sulla gratuità del bene, sull'illusione della reciprocità. Il tono è quello di chi non condanna, ma osserva – con lo sguardo dolce e amaro di chi ha vissuto molto.
LA NATURA
Sognai di essere entrato in un immenso tempio sotterraneo dalle alte volte. Lo pervadeva tutto una luce uniforme, sotterranea anch'essa.
Proprio al centro del tempio sedeva una donna regale in una veste ondulata di colore verde. Il capo chino sulla mano, pareva immersa in un pensiero profondo.
Capii subito che quella donna era la Natura in persona e con un gelo improvviso penetrò nell'anima mia un timore reverenziale.
Mi avvicinai alla donna seduta e fatto un rispettoso inchino «O madre di noi tutti!», esclamai, «A cosa stai pensando? Non stai forse meditando sui futuri destini dell'umanità? Non forse su come essa possa raggiungere per quanto sia possibile la perfezione e la felicità?».
La donna lentamente volse verso di me i suoi terribili occhi scuri. Le sue labbra ebbero un fremito e risuonò una voce acuta, simile allo stridere del ferro.
– Io penso a come rafforzare i muscoli delle zampe della pulce, perché essa possa in modo più comodo salvarsi dai suoi nemici. L'equilibrio tra attacco e difesa è spezzato... Bisogna ristabilirlo.
– Come? – balbettai io in risposta –. È a questo che pensi? Ma forse che noi, gli uomini, non siamo i tuoi figli prediletti?
La donna contrasse appena le sopracciglia:
– Tutte le creature sono mie figlie –, proferì –, e io mi preoccupo per tutte allo stesso modo, e allo stesso modo le elimino.
– Ma il bene... la ragione... la giustizia.... balbettai nuovamente.
– Queste sono parole degli uomini –, risuonò la metallica voce –, io non conosco né il bene, né il male... La ragione per me non è legge e cosa è la giustizia? Io ti ho dato la vita e io te la toglierò e la darò ad altri, vermi o uomini... per me è lo stesso... E tu, per ora, difenditi e non disturbarmi!
Avrei voluto obiettare... ma la terra d'intorno si mise a gemere e tremò, io mi svegliai.
Agosto 1879
Il poemetto si presenta come un sogno allegorico, un topos antichissimo che permette al narratore di entrare in contatto con entità sovrumane o principi astratti. Il tempio sotterraneo, pervaso da una luce che non viene dal sole, introduce immediatamente una dimensione simbolica e onirica: siamo nel cuore della materia, ma anche nel centro dell'universo, nel luogo in cui la verità – e non l'illusione – si manifesta.
Al centro della scena, la Natura personificata in una figura femminile regale, vestita di verde (colore della vita, ma anche della neutralità vegetale). È immobile, assorta, potente, e lo sguardo del narratore è da subito pervaso da reverenza, come accade nei testi sacri.
Ma appena egli la interpella con domande di ordine morale – "il bene", "la perfezione", "la felicità" –, la risposta è tanto glaciale quanto disarmante: la Natura non si occupa dell'uomo come vertice del creato, bensì di un problema biologico concreto – rafforzare i muscoli della pulce per ristabilire un equilibrio perduto. La sua attenzione, dunque, è rivolta a un dettaglio microscopico, ma che, nella sua logica, ha lo stesso valore dell'uomo.
Il colloquio si fa incalzante, con il narratore che tenta di opporre i valori umani (bene, giustizia, ragione) a una divinità che non li riconosce. La Natura si rivela amorale, impersonale, cieca, e la sua voce ha il suono tagliente del metallo, come se fosse parte della stessa meccanica inumana del mondo. Non ama, non distingue, non salva. Non c'è giudizio, solo trasmissione della vita, e anche della morte, a chi capita.
Turgenev tocca qui uno dei vertici più filosoficamente cupi del suo mondo poetico. Siamo nel pieno di una riflessione post-romantica, post-idealistica, dove le domande dell'uomo non ottengono risposta perché non vi è nulla, nel disegno naturale, che abbia forma umana. La Natura non è madre, né matrigna: è sistema. E in questo, sì, siamo chiaramente in dialogo con Leopardi e con la disillusione moderna.
Ma a differenza di Leopardi, che lascia al lettore l'ironia tragica della consapevolezza, Turgenev non insiste nella condanna, né spinge verso la disperazione. Si limita a mostrare, a riferire il sogno come una visione: l'uomo può difendersi – dice la Natura – ma non cambiare le leggi del mondo.
Il poemetto si chiude su un risveglio angosciato, come spesso avviene in Turgenev: la verità si rivela nel sogno, ma resta inaccessibile nella veglia. Il suo "Io ti ho dato la vita e io te la toglierò" risuona come una parafrasi della Natura stessa in Leopardi: eterna, estranea, immobile.
L'INCONTRO
SOGNO
Sognavo di andare lungo una steppa nuda e sconfinata, disseminata di grosse pietre angolose sotto un basso cielo nero.
Tra le pietre si snodava un sentiero... Lo seguivo non sapendo dove andassi e perché...
D'improvviso di fronte a me, sulla stretta linea del sentiero, comparve qualcosa di simile a un esile cirro... Cominciai ad osservarlo: il cirro divenne una donna, alta e ben fatta, in una veste bianca, con una cintola chiara e stretta intorno alla vita. Si affrettava via da me con passo svelto.
Non vidi il suo volto, non vidi neppure i suoi capelli: li ricopriva una stoffa ondulata; ma tutto il mio cuore si precipitò al suo inseguimento. Mi sembrava bellissima, cara e gentile... Volevo ad ogni costo raggiungerla, volevo dare uno sguardo al suo volto... ai suoi occhi... Oh, sì! Volevo vedere, dovevo vedere quegli occhi.
Tuttavia, per quanto mi affrettassi, si muoveva ancora più rapida di me e non potevo raggiungerla.
Ma ecco, di traverso sul sentiero, comparve una larga pietra liscia... Le sbarrò la strada.
La donna le si fermò di fronte... e io le corsi vicino tremante per la gioia e l'attesa, non senza timore.
Non dissi nulla... Ma lei si voltò silente verso di me...
E tuttavia non vidi i suoi occhi. Erano chiusi.
Il suo volto era bianco... bianco come la sua veste; le braccia denudate pendevano immobili. Era come se fosse tutta impietrita; in tutto il suo corpo, in ogni tratto del volto quella donna ricordava una statua di marmo.
Lentamente, senza piegare nessuna parte del corpo, si voltò indietro e si riversò su quella liscia pietra.
Ed ecco che io le giaccio accanto, giaccio sulla schiena, tutto allungato come una statua tombale, dopo aver intrecciato le mani come in preghiera sul petto e sento di essere impietrito anch'io.
Passarono alcuni attimi... La donna d'improvviso si alzò e se ne andò.
Io volevo gettarmi al suo inseguimento, ma non potevo assolutamente muovermi, non potevo sciogliere le mani congiunte e, prigioniero d'ineffabile angoscia, la seguivo solo con lo sguardo.
Allora lei d'un tratto si voltò e io vidi occhi chiari e radiosi in un volto vivo e animato. Ella li volse verso di me e si mise a ridere con le sole labbra... senza suono. «Alzati, diceva – e raggiungimi».
Ma io non potevo proprio fare alcun movimento.
Allora lei si mise a ridere ancora una volta e si allontanò velocemente, dondolando allegramente la testa sulla quale d'improvviso, a vive tinte, rosseggiò un serto di piccole rose.
E io rimasi immobile e muto sulla mia pietra tombale.
Febbraio 1878
Il testo è interamente costruito su un sogno – elemento ricorrente nella produzione matura di Turgenev – ma un sogno che assume qui la forza di una rivelazione metafisica. Il paesaggio iniziale è spoglio, ostile, essenziale: una steppa nuda e sconfinata, punteggiata di pietre, sotto un cielo basso e nero. È il mondo dell'inconscio, ma anche un paesaggio dell'anima spogliata, privata di riferimenti e speranze.
Su questa linea sottile, un sentiero: è la via del destino, o della coscienza, che si snoda tra gli ostacoli della materia. È lì che appare, prima come una nube leggera, poi come figura femminile, la donna che il narratore (o sognatore) insegue. Ella è velata, lontana, eppure subito carissima, misteriosamente amata, come se portasse in sé un'attrazione profonda, più potente della volontà.
Però l'incontro si rivela illusorio. L'ostacolo – una pietra liscia – la costringe a fermarsi, e finalmente l'uomo la raggiunge. Tuttavia, la donna è impietrita, statua bianca, come in un monumento funebre: occhi chiusi, corpo immobile, bellezza glaciale. Il contatto non avviene. E mentre lei si adagia sulla pietra, l'uomo si accorge di essere anche lui diventato pietra, steso come un morto.
Ma la scena non è conclusa. Lei si rialza, si allontana. Quando si volta, per un istante mostra occhi vivi e radiosi, sorride senza suono, e invita: "Alzati, raggiungimi". Ma lui non può. È prigioniero. E lei si allontana, con la testa che ondeggia allegramente sotto un sorprendente serto di rose, immagine ambigua di bellezza e vitalità, quasi beffarda.
L'incontro è una straordinaria allegoria – ambivalente e profondissima – del desiderio e della morte, del richiamo alla vita e della condanna all'immobilità. La donna bianca, prima statua e poi essere vivente, è al tempo stesso la Morte e l'Amore, l'Immagine e la Realtà, la Fine e la Promessa.
Turgenev sembra qui rappresentare la tragica impossibilità dell'unione con l'assoluto: l'uomo ama, insegue, ma non può possedere. Quando la figura amata si arresta e si offre, è già oltre il vivente. Quando si rianima e sorride, l'uomo è ormai incapace di seguirla. La statua tombale diventa allora metafora dell'esistenza interiore, pietrificata dallo scacco del desiderio.
E tuttavia, quel riso silenzioso e quel serto di rose sono indizi misteriosi, quasi un dono che non consola, ma accompagna. Il tono è elegiaco, visionario, attraversato da una forma di rassegnata meraviglia. Non c'è tragedia esplicita, ma un senso fortissimo di ineluttabilità, di poesia funebre che si fa gesto teatrale.
LA VECCHIA
Solo me ne andavo per un vasto prato.
E d'improvviso mi parve di sentire dei lievi passi circospetti alle mie spalle... Qualcuno mi stava seguendo.
Mi voltai e vidi una piccola vecchia ingobbita, tutta avviluppata nei suoi grigi cenci. Lasciavano essi intravvedere solo il viso della vecchia: un viso giallognolo, rugoso, privo di denti e con un naso aguzzo.
Mi avvicinai... Lei si arrestò.
– Chi sei? Cosa ti serve? Sei una mendicante? Aspetti un'elemosina?
La vecchia non rispondeva. Io mi piegai verso di lei e notai che entrambi i suoi occhi erano velati da una pellicola semitrasparente, di colore biancastro, da una membrana come quella di alcuni uccelli: essi se ne giovano per difendere gli occhi dalla luce troppo viva.
Ma nella vecchia quella membrana non si muoveva e non scopriva le pupille... dal che dedussi che era cieca...
– Vuoi l'elemosina? – ripetei la mia domanda –. Perché mi segui? – Ma la vecchia come al solito non rispondeva, solo si rattrappì un poco.
Mi voltai e me ne andai per la mia strada.
Ed ecco che nuovamente odo dietro di me quegli stessi passi leggeri, misurati, quasi di soppiatto.
«Di nuovo quella donna! pensai, Perché mi si è attaccata addosso? Ma subito mentalmente aggiunsi: probabilmente per la cecità ha perso la strada – adesso segue con l'udito i miei passi, per arrivare insieme a me in un luogo abitato. Sì, sì; è proprio così».
Ma una strana inquietudine per un po' s'impadroni dei miei pensieri: cominciò a sembrarmi che non fosse la vecchietta a seguirmi, ma che al contrario fosse lei a dirigermi, che lei mi spingesse ora a destra, ora a manca, e che io involontariamente mi piegassi al suo volere.
Tuttavia continuai a procedere... Ed ecco che di fronte a me, proprio sulla mia strada qualcosa nereggia spalancandosi... quasi una fossa... «Una tomba» mi balenò nella testa «Ecco dove costei mi sta spingendo!»
Mi volto bruscamente indietro... La vecchia è ancora dietro a me... ma adesso vede! – Mi guarda con grandi occhi perfidi e sinistri... gli occhi di un uccello rapace... Io mi accosto al suo volto, ai suoi occhi... Di nuovo la stessa opaca membrana, la stessa figura ottusa e cieca...
«Ah! – penso io... – questa vecchia è il mio destino. Quel destino cui nessun uomo può sfuggire».
«Non può sfuggire! Non può sfuggire! Che follia è questa?... Bisogna tentare». E mi butto di lato, in un'altra direzione.
Vado spedito... Ma quei passi leggeri come prima frusciano dietro di me, vicino, vicino... E davanti di nuovo nereggia una fossa.
Cambio nuovamente direzione... E di nuovo lo stesso fruscio alle mie spalle e la stessa minacciosa macchia di fronte.
E dovunque io mi getti come una lepre in fuga... sempre la stessa cosa, la stessa!
«Aspetta, penso, la ingannerò! Non andrò in nessun luogo!» e mi siedo immediatamente in terra.
La vecchia se ne sta dietro, a due passi da me. Non la odo, ma sento che è lì.
E d'improvviso vedo che quella macchia che nereggiava in lontananza adesso veleggia, da sé si muove strisciando verso di me!
Dio! Mi volto indietro a guardare... La vecchia mi scruta fisso e la sua bocca sdentata si è contorta in un ghigno...
– Non potrai sfuggire!
Febbraio 1878
L'incipit è subito immerso in una dimensione onirica: "Solo me ne andavo per un vasto prato". Spazio aperto, ma deserto e anonimo: un non–luogo che richiama il sogno e l'altrove psichico. È in questa condizione sospesa che irrompe l'inquietudine: lievi passi alle spalle, presenza che segue, o forse guida. Il narratore si volta e vede una figura archetipica: una piccola vecchia ingobbita, velata nei suoi cenci grigi – figura che appartiene alla sfera del mito, del folclore, del destino. L'aspetto è deformato, quasi animalesco: la vecchia è cieca, ma il narratore avverte che non è inoffensiva.
La tensione cresce progressivamente: anche se si cerca di razionalizzare ("sarà cieca, segue il suono dei miei passi"), si fa strada l'impressione opposta: è lei a condurre lui, a indirizzarlo verso una meta ignota e temuta. E questa meta si manifesta ripetutamente come una macchia nera, una fossa, che si apre davanti, minacciosa e inevitabile.
Il cuore allegorico del testo si svela a metà: "questa vecchia è il mio destino". E non un destino astratto o impersonale, ma uno che ci segue silenziosamente, cieco solo in apparenza, e che infine ci guarda dritto negli occhi con lo sguardo predatorio di un uccello rapace. È qui che la poesia si fa allucinazione, visione, incubo puro.
Il narratore tenta in ogni modo di fuggire – con la mente e con il corpo – ma ovunque si diriga, la fossa si ripresenta, e i passi si fanno costanti. Il destino non può essere ingannato, né deviato. E perfino il tentativo più estremo – "non andrò in nessun luogo" – fallisce: la fossa non viene raggiunta, ma viene incontro, avanza da sola. E la vecchia, a due passi, ghigna. Parla. Ed è la fine.
Questo poemetto è uno dei più potenti esempi della poetica del destino di Turgenev, e uno dei suoi testi più cupi. L'allegoria è costruita con sapienza teatrale: l'ambiente rarefatto, l'unica figura persecutoria, la tensione crescente, il tentativo di fuga e il finale ineluttabile.
La vecchia rappresenta il destino individuale, ma anche la morte, l'invecchiamento, il limite. È cieca, ma vede. È curva, ma guida. È lenta, ma sempre presente. La ripetizione delle fughe e degli incontri, il ritorno costante della "macchia" davanti e dei "passi" dietro, crea un ritmo ossessivo, da incubo geometrico, come nei racconti kafkiani ante litteram o nei labirinti interiori di Borges.
La chiusa è magistrale: "Non potrai sfuggire!". Il ghigno della vecchia, come uno sberleffo della fatalità, è il punto in cui poesia e morte si toccano senza mediazione. Nessuna morale, nessuna salvezza, nessuna consolazione.
LA FINE DEL MONDO
UN SOGNO
Mi sembrava di essere in una qualche parte della Russia, in un angolo remoto, in una semplice casa di campagna.
Una stanza grande, bassa, con tre finestre; le pareti sono imbiancate alla meglio, non c'è mobilio. Di fronte alla casa una nuda pianura; abbassandosi gradualmente essa scompare in lontananza; un cielo grigio, uniforme, incombe su di essa come una cortina.
Non sono solo; una decina di persone sono con me nella stanza. Persone semplici in tutto, vestite con semplicità; si muovono in lungo e in largo, in silenzio, come di soppiatto. Si rifuggono vicendevolmente e tuttavia senza posa si scambiano angosciati sguardi.
Nessuno sa perché sia capitato in quella casa e chi siano le altre persone che sono con lui. Su tutti i volti inquietudine e sconforto... tutti a turno si avvicinano alle finestre e si guardano intorno quasi aspettassero qualcosa dal di fuori.
Poi riprendono di nuovo a vagare in lungo e in largo. Tra di noi si aggira un ragazzo di piccola statura; di tanto in tanto piagnucola con una vocina sottile, monotona: «Papino, ho paura!» Mi fa male al cuore questo piagnucolio e anch'io comincio ad avere paura... Di che cosa? non lo so nemmeno. Sento solo che si sta avvicinando una grande, grande disgrazia.
Ma il ragazzino ecco che si rimette a piagnucolare. Ah, come fare ad uscire da qui! Si soffoca! Che languore! Che oppressione!... Ma andarsene non è possibile.
Questo cielo è proprio come un lenzuolo funebre. E non c'è un filo di vento... Che l'aria sia morta?
D'improvviso il ragazzo fece un balzo verso la finestra e strillò con la stessa voce lamentosa:
Guardate! guardate! la terra è sprofondata!
Come? sprofondata!
Proprio così: prima di fronte alla casa c'era una pianura mentre adesso essa si erge sulla cima di una orrida montagna! L'orizzonte è caduto, è scomparso verso il basso, e proprio dalla casa scende quasi a picco, proprio come fosse stato scavato, un nero baratro.
Tutti ci accalcammo alla finestra... Il terrore ghiacciò i nostri cuori:
– Eccolo... eccolo! – sussurra il mio vicino.
Ed ecco lungo tutto il lontano limitare della terra qualcosa cominciò a muoversi, cominciarono a sollevarsi e cadere certe piccole collinette tondeggianti.
«È il mare!» ci venne di pensare a tutti nello stesso istante: «Esso adesso ci annegherà tutti... Solo come può crescere e sollevarsi così in alto? Su questo baratro?»
E tuttavia cresce, cresce gigantesco... Ora non sono più singole collinette che si agitano in lontananza... Un'unica onda compatta, mostruosa, afferra tutto il cerchio dell'orizzonte!
Precipita, precipita su di noi! Corre come gelido vortice, turbina come profonda tenebra. Tutto d'intorno cominciò a tremare e là, in quella massa che precipita, uno schianto, un rombo e il metallico mugolio di mille gole...
Ah! Che mugghio e grido! È la terra che si è messa a gridare dal terrore...
È la sua fine! È la fine di tutto!
Il ragazzo pigolò ancora una volta... Io volevo avvinghiarmi ai compagni ma noi tutti eravamo già schiacciati, sepolti, affogati, portati via da quell'onda ghiacciata, rombante e nera come l'inchiostro!
Oscurità... eterna oscurità!
A mala pena riprendendo fiato mi svegliai.
Marzo 1878
Con La fine del mondo, Turgenev conclude (e sigilla) il ciclo dei Poemetti in prosa con una delle visioni più potenti, cosmiche e profetiche dell'intera sua opera. Il riferimento alla "Darkness" di Byron è credibilissimo – sia nel tono, che nella materia – e si fonda su un'immaginazione apocalittica nutrita dal Romanticismo inglese, ma anche da certi paesaggi interiori della poesia russa di metà Ottocento.
Il poemetto prende forma fin dal titolo come sogno – ma un sogno lucido, gelido, con una nitidezza da incubo. L'inizio è trattenuto: ci troviamo in una casa russa di campagna, senza mobilio, in un paesaggio desolato, sotto un cielo grigio "come una cortina". La scena è inquieta ma ancora realistica, atmosferica. Tuttavia qualcosa si insinua: il silenzio, gli sguardi sfuggenti, la mancanza di identità tra i presenti, come se l'umanità fosse ormai disgregata, ridotta a presenze in cerca di un senso.
Il bambino che piagnucola – "Papino, ho paura!" – introduce l'emozione primaria: la paura pura, quella infantile e contagiosa. E subito, il narratore dichiara: anch'io comincio ad aver paura… ma non so di cosa. È la paura dell'ignoto cosmico, l'angoscia esistenziale, anticipazione di una catastrofe che è già cominciata.
Poi il sogno cambia tonalità: lo spazio si ribalta, la pianura crolla e lascia emergere un baratro nero, la casa si trova in bilico sul nulla. Il mondo fisico si dissolve, l'orizzonte scompare, il cielo è un sudario, e una massa d'acqua mostruosa – un mare senza nome, né coste – emerge all'orizzonte come un giudizio. L'acqua qui è simbolo apocalittico: non purifica, ma annienta.
La tensione culmina con una frase visionaria: "È la terra che si è messa a gridare dal terrore". E poi la fine: la voce del bambino si spegne, l'onda tutto travolge, "nera come l'inchiostro", e appresso eterno silenzio, eterna oscurità.
Questo poemetto è l'epilogo escatologico del mondo di Turgenev. Non c'è messaggio morale, non c'è redenzione, né salvezza: solo la percezione tremenda di una fine assoluta, che riguarda non l'individuo, ma l'intera terra, come materia vivente che geme, si spezza, si inabissa.
La struttura onirica consente una narrazione mobile, fluida, fatta di colpi d'occhio e mutazioni improvvise. Tutto è declinato in chiave sensoriale: il cielo che opprime, l'aria che soffoca, l'onda che corre, il suono metallico della terra che urla. È il crollo del mondo percepito, e insieme il naufragio della coscienza, che si risveglia solo quando ormai tutto è stato sepolto.
A differenza dei poemetti precedenti – dove la morte era figura, allegoria, simbolo – qui essa è catastrofe totale, fine dell'umano e del terrestre. E tuttavia il tono non è urlato: la scrittura resta limpida, descrittiva, sobria nella sua visionarietà, come accade nei sogni di chi non grida ma registra ciò che accade. È una fine silenziosa e perfetta, simile a certi epiloghi di Čechov o alle visioni cosmiche dei romantici tedeschi.
TAVOLA SINOTTICA
I sei poemetti, nell'insieme, offrono una vera filosofia lirica della fine: della giovinezza, dell'amore, della certezza, del mondo stesso. E Turgenev, pur restando fedele al suo stile pacato, raffinato e tenue, riesce a toccare vertici quasi biblici nel descrivere il silenzio che verrà dopo l'ultimo suono umano.
Essi si offrono come frammenti di sogno, di visione e di rivelazione, scritti con la grazia tersa della prosa matura, ma pervasi da una vibrazione esistenziale che li rende tutt'altro che semplici esercizi di stile. Nei sei testi, ma anche negli altri che non trattiamo, si distillano i temi dominanti dell'ultimo Turgenev: il tempo perduto, la fragilità del bene, la disillusione cosmica, la morte come figura costante, l'impossibilità di sottrarsi al destino, e in coda la fine del mondo come compimento di una catastrofe interiore.
Ogni poemetto è una variazione sul tema del limite: limite della memoria, della conoscenza, della volontà, della speranza. L'autore non urla mai, non condanna: osserva, sogna, registra, e nella sua voce sempre misurata si insinuano profondità metafisiche inaspettate.
L'uomo turgeneviano cammina tra visioni senza appigli, perseguitato da ciò che ama (la donna velata), da ciò che lo attende (la vecchia cieca), da ciò che gli sfugge (la riconoscenza assente), da ciò che lo ignora (la Natura indifferente), fino all'ultima immagine del mondo che crolla in silenzio, come un cuore senza battito.
In ultima analisi, l'autore ci consegna una poetica del disinganno che non è mai disperata, ma sempre percorsa da un senso altissimo del limite, della misura, della malinconia cosmica. Le figure femminili (la fanciulla, le virtù, la Natura, la donna velata, la vecchia) sono forme superiori, a volte ironiche, a volte glaciali, mai del tutto accessibili.
E in fondo, la poesia dell'essenziale, quella del Turgenev maturo, è anche la poesia di ciò che ci sfugge, epperò ci chiama.