pesso durante l'estate, se per caso ti metterai in cammino sotto la tacita volta del cielo o, partecipando ad una spedizione militare, trascorrerai di sentinella la notte, mentre regna l'imposto silenzio, vedrai brillare nel cielo meteore luminose e stelle cadenti e fiammeggiare per l'aria tranquilla lunghe strisce di luce. ✦
DAL «METEORORUM LIBER»
De stellis cadentibus.
Saepe per aestatem coelo si forte silenti
aut carpes iter aut, Mavortia signa* secutus,
traduces vigilem per iussa silentia noctem,
collucere faces coeloque cadentia cernes
sidera et incensos per sudum albescere tractus.
Halitus hic modicusque et caeco impulsus ab igni
incidit in gelidas ut primum frigoris oras,
nec potis incretum longe exsuperare rigorem,
torquet iter fugiens nunc huc, nunc mobilis illuc,
donec conceptam traxit per viscera flammam,
nunc proprio incensus raptu, nunc terque quaterque
exagitata ferens impactae verbera nubis.
Ast ubi summotosque locos atque aëra summum
pervasit, qua continuus convertitur orbis,
hic rapido impulsus cursu vertigine et ipsa
incensus varia splendet per inane figura.
Arida concipiunt ignem fervetque agitando
spiritus, incendit pugnantia corpora motus.
Sive igitur lato amplexu multumque coacta est
materia, atque ingens series et longior ordo,
seu contra brevis et tenuem sortita vigorem,
quae facies, quae forma etiam, qualisque figura,
talis in aërio perlucet vertice flamma:
nunc iaculi in morem, validus quod torserit hostis,
nunc quales splendent lychni laquearibus aureis,
nunc qualis tenues ignescit stuppa per auras,
nunc flectit sese in spiras sinuata draconum,
nunc micat, ut celeri fallantur lumina sensu,
nunc cadere ut timeas ex ipso sidus olympo.
———
* Mavortia signa: le insegne di Marte, arcaicamente Mavors, dio romano della guerra.
Stelle cadenti
pesso durante l'estate, se per caso ti metterai in cammino sotto la tacita volta del cielo o, partecipando ad una spedizione militare, trascorrerai di sentinella la notte, mentre regna l'imposto silenzio, vedrai brillare nel cielo meteore luminose e stelle cadenti e fiammeggiare per l'aria tranquilla lunghe strisce di luce.
Allora un piccolo getto di vapore, sprigionatosi da un fuoco invisibile, non appena si imbatte nelle rigide plaghe del freddo, incapace com'è di vincere il gelo che da tanto tempo vi si è formato, piega la sua traiettoria e fugge guizzando or qua, or là, fino a che si lascia dietro una scia della fiamma che ha concepito dentro di sé, ora incendiandosi per effetto della sua velocità, ora subendo ripetutamente le violente sferzate d'una nuvola, contro cui è andato a sbattere.
Ma quando riesce a spingersi lontano e fino agli strati superiori dell'atmosfera, dove la terra ruota ininterrottamente, qui, muovendosi ad alta velocità e per il suo movimento orbitale incendiandosi, splende per il vuoto in aspetti diversi; gli elementi aridi prendono fuoco e s'arroventa per lo scotimento il vapore: il movimento finisce con l'infiammare elementi tra loro antitetici.
Ora, a seconda che gli elementi infiammabili si trovino raccolti in un vasto ambito e in gran quantità e in grosse file e in lunga teoria, o che siano di breve estensione e dotati di scarsa vitalità, quale è il loro aspetto, quale altresì la loro forma e la loro figura, tale appunto la fiamma sfavilla nell'alta atmosfera: ora simile ad un giavellotto scagliato da un robusto nemico, ora simile a lampade che splendano sotto soffitti dorati, ora a stoppa che arda per l'aria sottile; ora si curva torcendosi in spire di draghi, ora sfolgora sì, che per la rapidità della sensazione gli occhi restano ingannati, ora sì, da farti temere che una stella cada dal cielo.
(Dalle «Meteore». In: Poeti latini del Quattrocento. Ricciardi, 1964)
🔎 Giovanni Gioviano Pontano (1429-1503) fu uno dei maggiori umanisti del Quattrocento italiano, erede della grande tradizione napoletana di Antonio Beccadelli e Lorenzo Valla. Nato a Cerreto di Spoleto, trascorse quasi tutta la sua vita a Napoli, dove divenne figura centrale dell'Accademia fondata da Beccadelli (che in seguito prenderà il nome di "Pontaniana") e raffinato interprete della cultura classica, poeta latino di altissima qualità, uomo politico e consigliere del re Ferdinando d'Aragona.
La sua produzione è vastissima e tocca i più diversi campi: lirica amorosa, epigrammi, elegie, dialoghi filosofici, trattati scientifici e politici. In ogni pagina emerge un tratto distintivo: l'intreccio tra sapere dotto e sensibilità letteraria. Pontano scrive in latino con assoluta padronanza, ma anche con un gusto poetico che conferisce grazia e forza immaginativa persino ai testi "scientifici".
Il Meteororum liber appartiene a questa vena. È un trattato di meteorologia, ispirato alle Meteorologica di Aristotele e ai commenti medievali, ma rivisitato con la sensibilità rinascimentale: osservazione diretta dei fenomeni naturali, ricerca di spiegazioni razionali, e insieme gusto per la metafora, per la similitudine, per l'immagine vivida.
Il brano sulle stelle cadenti è esemplare. Pontano descrive con linguaggio quasi pittorico la nascita e il moto delle meteore: vapore che s'accende, scie luminose che fendono la notte, bagliori che assumono forme diverse. Ma lo fa evocando giavellotti, lampade, fiaccole, draghi infuocati: un repertorio figurativo che affonda nelle fonti classiche e insieme anticipa la sensibilità barocca. È in questa fusione di scienza e poesia che si coglie il senso dell'umanesimo pontaniano: conoscere significa anche saper contemplare, e descrivere con arte la bellezza e la meraviglia del reale.
DAL «METEORORUM LIBER»
Situm terrae mutari et terras ipsas renovari.
Quid mirum fontes siccato et flumina cursu
esinere? Adveniet lustris properantibus aetas,
cum pelago emerget tellus nova, cum mare terris
incumbens mole ingenti simul oppida et arces
cultaque sub rapido secum feret hausta profundo.
Nullus honos regum tumulis, impune deorum
templa ruent, idem fluctus pecudemque Iovemque
auratum affliget scopulo, exitium omnibus unum,
et clades una absumet iuvenesque senesque,
matres atque viros et corpora cara nepotum,
nec natum complexa parens miserabilis udis
proficiet lacrimis, clamantem et acerba gementem
coeruleus cano vertex absorbet hiatu,
et vota et pictos secum feret unda penates.
Non ullae ultra relliquiae aut monumenta manebunt,
non rerum labor, aut operum vis edita coelo;
maiestas ipsa ingenii, decora illa sororum
Aonidum*, confecta situ atque in nube iacebunt,
cunctaque sub tenebris et opaca nocte tegentur.
Parte alia exsurgent immani corpore montes
et nigra primo coelum caligine tingent
fumosis iuga verticibus, nondum aëre aperto,
nec sicca tellure satis. Post tempore certo
terra recens coelumque novum, nova litora et udi
labentes passim lymphis crepitantibus amnes
incipient praebere novis alimenta colonis
paulatimque novus fato instaurabitur orbis.
———
* sororum Aonidum: le Muse.
La terra cambia posto e si rinnova
erché meravigliarsi che fonti e fiumi, inariditisi, smettano di fluire? Nella corsa dei secoli, verrà un tempo in cui dal mare affiorerà una terra nuova, un tempo in cui, piombando sulle terre con la sua smisurata massa, il mare trascinerà via con sé città, castelli e campagne, inghiottendoli in fondo ai suoi travolgenti abissi.
Non saranno rispettati i mausolei dei re; impunemente verranno abbattuti i templi degli dèi, la stessa ondata sbatterà contro uno scoglio la bestia e la statua d'oro di Giove; una sola sarà la fine per tutti, e un solo disastro annienterà giovani e vecchi, mamme e mariti e i corpi amati dei loro nipoti, né, tenendo abbracciato il figliuolo, la madre infelice potrà salvarlo col pianto che le bagna il viso: mentr'egli grida e amaramente geme, un vortice azzurro l'inghiottirà nella sua biancheggiante voragine e l'onda si porterà via i voti e i dipinti penati.
Non sopravviveranno né reliquie né testimonianze, non le faticose costruzioni o la possanza delle opere levate sino al cielo; la stessa maestà dell'ingegno, gli ornamenti preclari delle sorelle Aonidi giaceranno disfatti dalla muffa e tra i nembi e tutto sarà nascosto nelle tenebre e nell'oscurità della notte.
In altra parte affioreranno montagne di smisurata mole e prima gioghi dalle cime fumose tingeranno di nera caligine il cielo, quando l'aria non sarà ancora sgombra né abbastanza asciutta la terra; poi, al tempo stabilito, una terra novella e un nuovo cielo, nuove sponde e umidi fiumi, scorrenti qua e là tra lo scrosciar dell'acque, cominceranno ad offrir nutrimento a nuovi abitatori e pian piano, come vuole il destino, prenderà inizio un rinnovato mondo.
(Dalle «Meteore». In: Poeti latini del Quattrocento. Ricciardi, 1964)
👉 Pontano, nel descrivere il destino della terra che si dissolve e si rinnova, sembra inserirsi in una corrente di pensiero che non è solo naturalistica, ma anche teologica e profetica. L'idea di una renovatio mundi percorre infatti gran parte del Medioevo: Agostino, nelle Confessioni e nella Città di Dio, insiste sul carattere provvisorio delle opere umane, destinate a cadere, mentre solo Dio rimane eterno. Ogni rovina cosmica è per lui segno del limite creaturale e insieme promessa di un compimento.
Gioacchino da Fiore, nel XII secolo, aveva dato un'interpretazione ancora più radicale: la storia non è solo declino, ma successione di età, ciascuna portatrice di un senso nuovo. Dopo l'epoca del Padre e quella del Figlio, ne sarebbe venuta una terza, dello Spirito, segnata da rinnovamento e libertà. Il suo linguaggio apocalittico e visionario non è distante dalle immagini pontaniane: il mondo che cade, la notte che tutto avvolge, e poi l'alba di un'era nuova.
Pontano, naturalmente, è umanista e non profeta, ma attinge a questo stesso patrimonio di simboli. Il suo immaginario della catastrofe che annienta re, popoli e templi riecheggia la Bibbia e i Padri; ma l'idea di una terra che si ricrea, che genera nuove rive e nuove colonie, richiama la fiducia rinascimentale nella ciclicità della natura, nella sua eterna capacità di rigenerarsi. Non c'è un giudizio finale, c'è un eterno ritorno.
Così il suo passo si colloca a metà strada tra Agostino e Lucrezio, tra la meditazione cristiana sul tempo che precipita e la visione epicurea dei mondi che nascono e muoiono. Il fascino del testo sta proprio in questo equilibrio: un umanesimo che guarda alla scienza, ma non rinuncia all'eco di profezie, apocalissi, escatologie medievali.
DAL «DE HORTIS HESPERIDUM»*
LIBER I
Quae loca sint apta serendis citriis.
Principio apricum ad solem ventosque tepentes
vergat ager; putres glebae, quaeque aequora rastris
molle sonent fluidum facile admissura liquorem.
Nec mihi displiceat salebrosi glarea ruris
quaeque solo tenui graciles imitatur arenas,
si modo saepe fimo spargas, si pronior unda
diluat ipsa super laetusque instillet et imber.
Quid non expugnet sollers industria? Non me
aut pudeat, dum mane suas philomela querelas
instaurat seu maiores sol suscitat umbras,
plena manu liquidis invergere dolia lymphis
spumantemque cavis inferre canalibus amnem,
solari et mollem cantu mulcente laborem;
aut etiam occasum ad solem primasque tenebras,
dum nox oceano nigris sese exserit alis,
aut tenebris mediis et cum intempesta silet nox
nec nocturna negat rorantia lumina Phoebe,
et flumen ruere et fontes mersatilis urnae:
tantum havet inspergi sese imbre Niasias arbor!
Evagatio quaedam poetica.
Iam tempus legere et cultis disponere in hortis
et tondere manu et rivos agitare sonantes
colligere et plenis redolentia citria ramis
aestivum ad solem et vento crepitantibus umbris.
Colligis ipse manu. Coniunx in parte laborum
dulcis adest, capit expensis de fune canistris
et mirata sinum pomis gravioribus implet.
Et (memini) astabat coniunx floresque legentem
Idalium** in rorem et Veneris mollissima dona***
amplexata virum, molli desedit in herba
et mecum dulces egit per carmina ludos;
quae nunc Elysios, o fortunata, recessus
laeta colis sine me, sine me per opaca vagaris
culta roseta legens et serta recentia nectis;
immemor ah nimiumque tui studiosa quietos
umbrarum saltus et grata silentia captas.
Sparge, puer, violas, manes salvete beati:
uxor adest, Ariadna****, meis oneranda lacertis.
O felix obitu, quae non violenta Brigantum
perpessa imperia*****, quae non miserabile nati
funus et orbati senis immedicabile vulnus
vidisti et patrios foedata sede penates******.
Sed solamen ades, coniunx; amplectere, neu me
lude diu, amplexare virum ac solare querentem
et mecum solitos citriorum collige flores.
———
* De hortis Hesperidum: le ninfe Esperidi, figlie di Espero, possedevano nei pressi del monte Atlante, ai confini occidentali della terra, un giardino i cui alberi producevano dei pomi d'oro. Lo custodiva un insonne drago, che fu poi ucciso da Ercole quando, per compiere una delle sue fatiche, dovette impadronirsi dei pomi. In questo poemetto in due libri, in cui tratta dell'origine e della coltivazione dei cedri, il Pontano evidentemente li identifica coi pomi d'oro delle Esperidi.
** Idalium: cioè di Venere, così chiamata dal bosco e dalla città a lei sacri ai piedi del monte Idalio, nell'isola di Cipro.
*** Veneris...dona: i frutti del cedro, perché, secondo il mito inventato dal Pontano, nel cedro appunto Venere trasformò il corpo del suo diletto Adone.
**** Ariadna: è la moglie del poeta, Adriana Sassone, ma cantata Ariadna.
***** violenta Brigantum imperia: si tratta della conquista di Napoli da parte di Carlo VIII nel 1494-1495.
****** patrios...penates: allusione al tradimento di Ferdinando il Cattolico ai danni del suo parente napoletano Federico d'Aragona, a cui finse di venire in aiuto, mentre in realtà se ne spartiva il regno coi Francesi.
Quali sono i luoghi adatti a piantarvi i cedri
rima di tutto, il campo sia esposto al calore del sole ed a venti tepidi; sia friabile il terreno, e il suolo tale che sotto i rastrelli dia un suono gentile e lasci agevolmente filtrare l'acqua che scorre. A me non dispiacerebbe neppure una campagna tutta ciottoli e arena, che col suo terriccio sottile somigli alla sabbia fina, purché vi si sparga spesso del concime e, scorrendo in pendio, l'acqua l'irrighi in abbondanza e l'innaffi una pioggia copiosa.
Quali difficoltà non saprebbe vincere un'alacre attività? Io non mi vergognerei, quando al mattino l'usignuolo riprende i suoi lamenti o il sole suscita ombre più lunghe, a rovesciar di mia mano secchi colmi d'acqua cristallina e a versare un fiume spumeggiante nel cavo dei canali, alleviando la gentile fatica con la dolcezza d'un canto; oppure, al tramonto del sole e sul far della sera, quando la notte si leva dall'oceano con le sue ali nere, o in mezzo alle tenebre e quando tutto tace nel cuor della notte e Febe notturna non nega il suo rugiadoso chiarore, a rovesciar sul terreno un fiume d'acqua sorgiva dall'urna che agevolmente si affonda: tanto è bramoso il cedro d'esser cosparso d'acqua!
Digressione poetica.
E poi verrà il tempo di scegliere le pianticelle e di disporle nei giardini ben coltivati e di potarle a mano e di avviarvi scroscianti ruscelli e di raccogliere dai rami carichi i cedri profumati, sotto il sole d'estate e quando l'ombre frusciano al vento. Tu li cogli con la mano. Ti accompagna nella fatica la dolce tua sposa e li prende dai canestri calati giù con una fune e, piena di stupore, si colma il grembo dei frutti più pesanti.
Anche a me, ricordo, era accanto mia moglie e, mentre coglievo i fiori per estrarne l'essenza idalia, e i frutti, dolcissimo dono di Venere, mi abbracciò, poi si sedette sull'erba soffice e insieme con me, cantando, si abbandonò a dolci trastulli. Ora, o fortunata, senza di me tu vivi felice nei recessi dell'Eliso, senza di me ti aggiri per luoghi ombrosi, cogliendo magnifiche rose e intrecci fresche ghirlande; immemore, ahimè, e troppo preoccupata di te stessa, ti godi le quiete balze e i dolci silenzi del regno dei morti.
Spargi viole, ragazzo; salve, o spirito beato; la mia sposa, Ariadna, è qui, a sentir il peso delle mie braccia. Felice te, che sei morta, che non hai dovuto subire il prepotente dominio dei Briganti, che non hai visto l'infelice morte di tuo figlio e l'inguaribile ferita di questo vecchio rimasto privo del suo figliolo, e contaminati nella loro sede i patrii penati. Ma tu, vieni a consolarmi, o sposa: abbracciami, non illudermi ancora, abbraccia tuo marito, consola il suo dolore e, come facevi un tempo, vieni a cogliere ancora, con me, i fiori dei cedri.
(Dagli «Orti delle Esperidi», Libro I. In: Poeti latini del Quattrocento. Ricciardi, 1964)
🔎 In questo passo degli «Orti delle Esperidi», Pontano apre con un registro apparentemente didascalico: come Virgilio nelle Georgiche, descrive le condizioni ideali per la coltivazione dei cedri, i "pomi d'oro" che egli identifica con quelli leggendari delle Esperidi. Il campo deve essere esposto al sole, accarezzato da venti miti, con un terreno friabile e capace di trattenere l'acqua, arricchito dal concime e dall'opera paziente dell'uomo. Non manca qui il motivo classico della industria che vince la natura: "quid non expugnet sollers industria?". La fatica agricola si accompagna al canto degli uccelli e allo scorrere delle acque irrigue, in un'armonia di lavoro e poesia che conferisce dignità quasi sacrale all'opera del coltivatore.
Ma a questa sezione descrittiva segue un'improvvisa evagazione elegiaca. Il poeta abbandona l'istruzione agronomica per rievocare, con accenti commossi, la complicità della moglie Ariadna, che lo accompagnava nella cura degli agrumi, raccogliendo i frutti e intrecciando ghirlande di fiori. È il punto in cui il poemetto didascalico si trasfigura in elegia personale: la moglie non c'è più, ormai accolta negli Elisi, e la memoria del lavoro condiviso si mescola al rimpianto struggente. La scena domestica si rovescia in visione ultraterrena: Ariadna vaga tra i giardini d'ombra, intenta ancora a cogliere fiori, ma lontana, irraggiungibile.
Pontano intreccia così due fili della sua arte: la precisione naturalistica e l'intensità affettiva. La pianta esotica, il cedro, diventa emblema della fedeltà coniugale e del ricordo, e il giardino terrestre si specchia nel giardino mitico delle Esperidi e in quello oltremondano degli Elisi. Nel rimprovero dolce ("immemor ah nimiumque tui studiosa…") c'è tutta la tensione fra l'amore terreno e la separazione inevitabile, fra il lavoro quotidiano e la morte che disgiunge.
Il passo si chiude con un'invocazione accorata: il poeta chiede alla moglie di tornare ad abbracciarlo e consolarlo, di riprendere insieme a lui il gesto semplice di raccogliere fiori di cedro. È un'immagine che fonde il mito, la natura e la memoria personale in un'unica scena: un giardino reale che diventa simbolo d'amore eterno.
A distanza di un millennio dalla caduta dell'impero romano d'Occidente, quando i volgari già si erano affermati in tutta Europa – e che fioritura avevano avuto con la Commedia, con Petrarca e con Boccaccio! –, accade qualcosa di inaudito. Poeti, scrittori e intellettuali dall'Italia alla Spagna, da Germania e Paesi Bassi all'Inghilterra, quasi per tacito accordo, tornano a scrivere in latino. Non per una parentesi o per un anniversario celebrativo, ma con convinzione e continuità: per un secolo intero il latino ridiventa la lingua naturale di chi fa uso professionale della penna (e non più solo nei campi giuridici, scientifici e religiosi, dove aveva continuato ad esserlo "per necessità"). Ed è un fenomeno europeo e planetario, se per quel tempo Europa significa quasi il mondo intero.
La fioritura della poesia latina nel Quattrocento, quando già i volgari cantavano con forza autonoma, è qualcosa che ha del miracoloso per scala geografica, durata e intensità. Sorprendente? Forse no, se pensiamo che ogni poesia nasce sempre con un elemento di imprevisto. Ma qui la meraviglia sta nella ricchissima varietà e nella freschezza di quella efflorescenza: non un latino imbalsamato, bensì lingua viva, ardente, aristocratica nel senso che dice Croce – «profanamente o laicamente sacra, circonfusa di amore e di riverenza» – ma al tempo stesso capace di piegarsi al quotidiano, di evocare città, paesaggi, storie d'amore, con una naturalezza sorprendente.
Gli umanisti guardano a Cicerone e a Virgilio, come pure alla filosofia dell'antica Grecia; ma i poeti lirici ancor più a Tibullo, Properzio, Ovidio e Marziale, cioè all'elegia e all'epigramma, e non da copisti timorosi, bensì come figli che vogliono misurarsi coi padri, spesso osando di più. Così vediamo un Pontano cantare con solennità cosmica le meteore o i cedri del suo giardino, trasformando il cielo e la terra in materia lirica. Un Poliziano, che sa intessere il latino di colori e ritmi nuovi, quasi musicali, accanto alle sue rime volgari. Un Filelfo, aspro e pungente, capace di un latino tanto elegante quanto velenoso nelle invettive. E poi ancora i Beccadelli (Panormita), i Sannazaro, i Marullo: ognuno con la propria voce, ognuno con la certezza che il latino fosse lingua non di scolastica ripetizione, ma di vita ardente.
In questi testi incontriamo non solo la perfezione formale, ma anche un calore nuovo: un realismo acre, una vena erotica sfacciata, un'ironia moderna che l'antichità non avrebbe forse tollerato. È poesia fresca, luminosa, appassionata, che si diffonde grazie alla stampa e diventa bene comune in una misura prima impensabile.
E non è solo poesia: il patrimonio dei prosatori latini quattrocenteschi si aggiunge al quadro, mostrando un altro volto altrettanto ricco e variegato – satirico, elegiaco, arcadico, popolaresco – del "secolo degli umanisti". Per non dire poi della filologia moderna, che in questo humus vede la luce e avvia il suo poderoso lavoro di autenticazione e interpretazione dei testi antichi, nonché di riproduzione di opere intere, grazie anche all'avvento della stampa a caratteri mobili.
Il miracolo è tutto qui: una lingua che sembrava relegata alle pergamene delle cancellerie e delle scuole si rialza e canta ancora, con voce nuova. Non meno potente dei volgari che già conquistavano il mondo, ma diversa: una voce che sa guardare indietro per ritrovare la forza di andare avanti. La poesia latina del Quattrocento non è un reperto, ma un fiume vivo, che ci sorprende ancora oggi per la sua vitalità, la sua varietà, il suo calore.
💬 È, in germe, l'obiezione pregiudiziale che poi si sviluppò e approfondì e che il De Sanctis, tra gli altri, recisamente formulò nel "Saggio sul Petrarca": «È impossibile scrivere letterariamente in una lingua morta. Poiché la vita della parola non è nel suo significato materiale, che solo sopravvive, ma nelle immagini, nelle idee accessorie, in certe fini gradazioni, che sono un sottinteso aggiuntovi dal popolo. Le parole giacciono senz'anima come in un dizionario; hanno perduto la fisionomia e il calore, e né il Petrarca né nessuno può risuscitarle».
Teoricamente considerando, quest'obiezione non si può dire che poggi sopra sicure fondamenta. Nel Rinascimento, il latino non si trovava più nella condizione in cui era stato, nonché nell'antichità, nel corso stesso del medioevo, presso gli scrittori latini popolareggianti e i poeti di «ritmi», dai quali era ancora adoperato come linguaggio naturale o immediato che si dica; sì invece nell'altra, che pur si ebbe nel medioevo, e che è parsa artificiosa, degli scrittori e poeti cristiani che procacciavano di chiudere il nuovo contenuto nelle forme antiche. Ma non però era lingua morta, e anzi, per contrario, si faceva più viva, o diversamente viva, col nuovo sentimento dell'uomo e della natura, con lo studio crescente dell'antichità classica e col contrasto stesso in cui come lingua si poneva verso il volgare.
Diventava una sorta di lingua sacra, profanamente o laicamente sacra, circonfusa di amore e di riverenza, una lingua aristocratica, nella quale gli affetti e i pensieri venivano innalzati e in modo conforme atteggiati. Pel solo fatto che le parole degli antichi poeti entravano in questa nuova relazione espressiva, non appartenevano, dunque, ai vocabolarî ma alle anime, che, facendole loro proprie, sempre in qualche misura ne modificavano il significato e l'intima risonanza, e talvolta anche l'esterna apparenza, col coniarne, come si dice, di nuove, che è il segno grosso e tangibile di questa attualità di vita.
[...] Potrebbe ragionevolmente dubitarsi se, non solo allora ma anche ai giorni nostri, con tanti sussidî filologici e in tanto progresso storiografico, si riesca veramente a intendere in tutti i loro particolari e in certe loro sfumature gli scrittori romani; ma non si può dubitare che chi parli o scriva latino abbia la certezza di quel che vuol dire e fa dire ai vocaboli che adopera. Carlo Dati, – che, nel seicento, stimava anch'esso imitatori e non scrittori originali i moderni poetanti in latino per la ragione che non potevano avere di quella lingua padronanza assoluta, apprendendola come lingua morta «a forza di regole, d'osservazioni e di vocabolarî», onde era da credere che anche i più eruditi ed eleganti, messi a paragone con gli antichi, «pigliassero granchi come balene», – si figurava che «se Cesare, Cicerone e Virgilio ci sentissero parlare in latino, o non c'intenderebbero o creperebbero dalle risa». Il che sarebbe stato, se mai, una riprova che quella lingua viveva e si trasformava, essendo noto che le nuove parole si formano altresì sulla base di fraintendimenti e di significati fantastici, attribuiti alle antiche: senza dire che quelle immaginate impressioni di maraviglia e di comicità le proverebbero del pari Guitton d'Arezzo e Guido Cavalcanti, o anche Dante e Petrarca, se ci udissero e leggessero e vedessero che cosa sono diventate le parole del loro volgare toscano. Del resto, il De Sanctis stesso, in un altro suo libro discorrendo dei poeti latini del cinquecento, torna sulla prima sua sentenza e, nonché correggerla, la rinnega addirittura. [...]
(Da: Benedetto Croce. Poesia popolare e poesia d'arte. Laterza, 1957)