Il canto della lucerna: Ero e Leandro

Il mito antico che toccò il cuore del mondo

e avventure di Ero e Leandro (Ἡρῴ καὶ Λέανδρῳ ἄθλα), attribuito a Museo Grammatico, è un epillio tardo-antico, composto probabilmente tra il V e il VI secolo d.C..

L'opera rielabora, con stile misurato e pathos controllato, la celebre leggenda amorosa di Ero e Leandro, una storia già nota attraverso fonti classiche (come Ovidio e Marziale).

Si tratta di un piccolo poema di 341 esametri che rappresenta uno degli ultimi splendori della poesia epica in lingua greca, ormai priva del vigore eroico originario e rivolta invece a una vocazione più sentimentale, raffinata e intimistica.

Con un'arte superba, che fonde nitore classico e sensibilità elegiaca, il poema è, in tutto e per tutto, un canto d'amore e di morte, giocato sul registro della dolcezza e della tenerezza estrema, e dominato da una volontà di limpida chiarezza, quasi cristallina.

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§ 1. – La struttura epillica e il tono elegiaco

L'opera è un tipico esempio di epillio, cioè di poema breve a carattere narrativo-mitologico, in esametri dattilici, affine per tono e misura agli Idilli di Teocrito o agli Epyllia alessandrini. A differenza della poesia epica tradizionale, qui il tono è sommesso, intimo, votato a una narrazione lineare e compiuta, che punta non sull'azione, ma sull'introspezione e sull'affettività.

Il registro emotivo dominante è l'elegia, ma senza lamenti esasperati: tutto è trattenuto, composto, perfino nella tragedia finale. L'amore che unisce Ero e Leandro non è travolgente in senso violento, ma soffice, costante, notturno, come la luce della lucerna che guida il giovane attraverso le acque dell'Ellesponto.


§ 2. – L'amore come rito e trasgressione

Elemento centrale del poema è l'idea dell'amore come rito segreto, scandito da gesti ripetuti (l'accensione della lucerna, la traversata notturna, l'abbraccio silenzioso). L'amore non è qui un evento improvviso e caotico, ma un rito amoroso delicato e regolato, che tuttavia infrange i divieti della condizione sacerdotale di Ero.

Museo non condanna l'amore dei protagonisti, anzi lo celebra nella sua intensità devota e coraggiosa, ma lo incastona in una cornice tragica. È la natura stessa – il mare, il vento – a frapporsi tra gli amanti, trasformando il rito in tragedia e l'amore in leggenda. Non a caso, la figura del destino non è mai nominata esplicitamente, ma aleggia sotto forma di meteorologia ostile, quasi una moderna metafora del caso o dell'assurdo.


§ 3. – Luce e tenebra: metafore centrali

La lucerna, posta fin dal primo verso al centro dell'evocazione, è la vera protagonista simbolica del poema: segno di presenza, guida, messaggera, ma anche oggetto vulnerabile. La sua luce, che brilla nella notte, è metafora dell'amore stesso: fragile ma potente, piccola eppure capace di orientare un'esistenza.

La sua estinzione è il momento di rottura: la luce si spegne, il mare inghiotte il giovane, la tragedia si compie. È un gesto minuscolo (un soffio di vento), ma ha la forza di un destino. Non a caso, il poema si chiude nel buio e nel silenzio, mentre la morte unisce ciò che la vita ha diviso.


§ 4. – Una poetica della misura

Museo si distingue per una poetica della misura che rifugge gli eccessi retorici: il linguaggio è limpido, semplice, classico; l'eleganza delle immagini si accompagna a un uso accorto delle metafore; la narrazione è lineare, senza digressioni né effetti melodrammatici. La morte di Leandro e di Ero non è gridata, ma descritta con sobrietà, come un fatto necessario, inscritto nella bellezza stessa della loro unione.

L'autore compone in un'epoca di tramonto della cultura classica in cui si avverte la fine del mondo eroico, con gli ideali di forza e gloria che lasciano il posto a temi intimistici e sentimentali, e in cui la poesia tardo-antica tende a una riflessione malinconica sulla fragilità umana.

L'opera si colloca perciò in una tradizione epillica che non cerca più la grande epopea, ma piuttosto brevi e intensi racconti amorosi: esempi analoghi si trovano nei coevi Nonnos di Panopoli e in parte in Quinto Smirneo.

Nonostante la sua semplicità apparente, Le avventure di Ero e Leandro rivela una raffinata perizia tecnica e una coscienza poetica elevata, pur nella sua eleganza addolorata.


§ 5. – Il testo poetico

Il lessico di Museo Grammatico, pur nella sua apparente semplicità, mantiene un fitto tessuto allusivo alla tradizione epica, elegiaca e lirica greco-romana. Le immagini marine e i riferimenti mitologici costanti rinforzano la carica simbolica e tragica della vicenda.

Il poemetto si apre con l'invocazione alla dèa dell'amore e alla lucerna (vv. 1–40), testimone silenziosa degli amori notturni tra Ero e Leandro. Sesto e Abido, le due città divise dal mare, fanno da sfondo al dramma: Leandro, giovane di Abido, e Ero, vergine sacerdotessa di Venere a Sesto, si innamorano durante una festività in onore della dèa (vv. 41–100).

Ero, riservata e pudica, tenta inizialmente di opporsi ai sentimenti, ma Leandro, conquistato dalla sua straordinaria bellezza, la seduce con parole ardenti. Segni furtivi, cenni e sguardi danno inizio alla loro complicità amorosa (vv. 101–160). I due amanti stabiliscono un patto: ogni notte Ero accenderà una lucerna sulla torre, e Leandro, nuotando attraverso l'Ellesponto, la raggiungerà per unirsi a lei (vv. 161–200).

Per molte notti, la lucerna guida Leandro nella sua traversata, e gli incontri segreti si compiono sotto la protezione delle tenebre, senza cerimonie né canti nuziali (vv. 201–260). Il loro amore vive nella clandestinità: di giorno Ero appare ancora vergine agli occhi dei suoi genitori, ma di notte si dona pienamente a Leandro.

Con l'arrivo dell'inverno (vv. 261–280), il mare si fa tempestoso, i venti infuriano e persino i marinai rifuggono le acque. Tuttavia, spinto dalla passione e dal segnale di Ero, Leandro sfida il mare in tempesta. La violenza delle onde e dei venti sopraffà il giovane, mentre la lucerna, spenta da un soffio nemico, gli toglie l'ultima speranza di orientamento.

Leandro annega, sopraffatto dai flutti (vv. 281–320). Ero, disperata, scruta il mare all'alba e, vedendo il corpo del suo amato trascinato agli scogli sotto la torre, si getta anch'essa nel vuoto, morendo accanto a lui (vv. 321–341). Così, l'amore che aveva sfidato mare e notte si compie nell'unione estrema della morte.

Museo, incipit

La lezione in lingua italiana del poemetto, qui di seguito integralmente riportata, e corredata da parafrasi, commento e note originali, è tratta da Le avventure di Ero e Leandro di Museo Grammatico (Μουσαίου τοῦ Γραμματικοῦ· Τὰ καθ’ Ἡρώ καὶ Λέανδρον), a cura di Luigi Lechi (Brescia, Nicolò Bettoni, 1811).

Museo Grammatico
LE AVVENTURE DI ERO E LEANDRO
Traduzione di Luigi Lechi
(Testo integrale)

Canta, o Dea, la lucerna di furtivi
Amori testimonio, e il notatore
Notturno d'imenei che il mar passâro,
E il buio maritaggio che l'Aurora
Immortale non vide, e Abido e Sesto,
Ove fur d'Ero le notturne nozze.

🖋 Parafrasi

Canta, o Musa, la lucerna, testimone di amori nascosti, e il nuotatore notturno degli incontri nuziali che attraversò il mare, e il matrimonio segreto che l'immortale Aurora non vide, e le città di Abido e Sesto, dove si compirono le nozze notturne di Ero.

🔎 Note testuali

lucerna:

✔ "notatore / notturno d'imenei": "nuotatore" notturno per raggiungere gli incontri amorosi (imenei = nozze).

✔ "buio maritaggio": matrimonio segreto, non benedetto dalla luce del giorno né dagli dèi ufficiali.

Abido e Sesto:


Il notator Leandro e la lucerna
Io sento; la lucerna, degli annunzj
Di Ciprigna ministra, e nunzia d'Ero
Cui nella notte i conjugali amplessi
Ornava; la lucerna dell'Amore
Simulacro, che un dì l'etereo Giove,
Compiuta l'opra della notte, in cielo
Addur dovea fra gli astri, e degli amori
Chiamar pronuba stella, chè ministra
Fu d'amorosi affanni e fida nunzia
Serbossi a un tempo di vegghianti nozze
Pria che vento spirasse aspro nemico.

🖋 Parafrasi

Io vedo il nuotatore Leandro e la lucerna: la lucerna, ministra degli annunci d'amore di Ciprigna, messaggera di Ero, che nella notte ornava i congiungimenti nuziali; la lucerna, immagine dell'Amore, che un giorno l'etereo Giove, compiuta l'opera notturna, doveva portare in cielo tra le stelle e chiamare stella nuziale degli amori, perché fu insieme ministra di travagli amorosi e fedele messaggera delle nozze vigilanti, prima che un vento nemico venisse a soffiare aspro.

🔎 Note testuali

Ciprigna / Citerea: epiteti poetici di Venere/Afrodite, dèa dell'amore, nata dalla schiuma marina.

"nunzia d'Ero": la lucerna è considerata messaggera dell'amore di Ero.

"la lucerna dell'Amore / simulacro": la lucerna è rappresentazione simbolica della forza amorosa.

Giove: secondo un mito minore evocato da Museo, Giove premia la lucerna (o la sua anima simbolica) collocandola tra gli astri: un riconoscimento poetico che sottolinea la sacralità dell'amore vero.

"pria che vento spirasse aspro nemico": allusione all'imminente tragedia: il vento nemico spegnerà la lucerna.


Ma mentre io canto, tu meco pur canta,
E l'estinta lucerna e il morïente
Leandro ch'ebber pari a un tempo il fine.

🖋 Parafrasi

E mentre io canto, tu, Musa, canta insieme a me la sorte della lanterna spenta e di Leandro morente, che trovarono insieme la stessa tragica fine.

🔎 Note testuali

L'invocazione poetica:


Non lontane città Sesto ed Abido
Stanno a rincontro e le divide il mare.
Tese Amor l'arco ed un sol dardo in ambe
Le cittadi scagliando, un giovinetto
V'accese e una donzella; eran lor nomi
Amabile Leandro e vergin' Ero.

🖋 Parafrasi

Le città di Sesto e Abido non sono lontane l'una dall'altra, separate solo da un braccio di mare. Amore tese l'arco e, scagliando un unico dardo, colpì entrambe le città, facendo innamorare un giovane e una fanciulla. I loro nomi erano Leandro, il bel giovane, ed Ero, la vergine.

🔎 Note testuali

✔ Amor (Cupido):

"vergin' Ero": forma poetica per indicare la purezza della fanciulla.


Ella Sesto abitava ed egli Abido:
In ambe le città stelle vezzose
Pari fra lor – Tu poi, ove t'avvenga
Volgerti per colà, cerca una torre
In che standosi un giorno Ero la Sestia
Colla lucerna fea scorta a Leandro;
Cerca d'Abido antica il fragoroso
Stretto, che piange di Leandro ancora
E la morte e gli amor'.

🖋 Parafrasi

Ero abitava a Sesto e Leandro ad Abido: in entrambe le città erano considerati stelle splendenti, ugualmente ammirati. Se ti accadrà di passare da quelle parti, cerca una torre: è là che Ero, un tempo, stando alla finestra, con una lanterna faceva da guida a Leandro. E guarda anche il vecchio e fragoroso stretto di Abido, che ancora oggi sembra lamentare, col suo mormorio, la morte di Leandro e il suo amore infelice.

🔎 Note testuali

Sesto e Abido: "Sesto dominava lo stretto dei Dardanelli dalla parte di Europa, ed Abido stavale dirimpetto dalla parte dell'Asia. Erano coteste città fra di loro lontane trenta stadi; ma la più breve distanza fra le due rive toccava i dieci stadi, cioè un miglio ed un quarto. Quello stretto ebbe il nome di Bosforo, cioè passo del bue, quasi che un bove potesse d'un tratto varcarlo. Da ciò ben si conclude non esser inverisimile il fatto qui narrato, come da alcuni si vuol far vista di credere per la solita smania di trovar allegorie da per tutto" (De Spuches, 1860).

"Ero la Sestia": Ero è detta "Sestia" poiché originaria di Sesto.

"fragoroso / stretto": il mare mosso che separa le due città.


– Ma come venne,
Abitator d'Abido, in amor d'Ero,
Il giovinetto, e come un'ugual fiamma
Seppe destar della donzella in core?

🖋 Parafrasi

Ma come avvenne che il giovane abitante di Abido si innamorò di Ero? E come riuscì a far nascere nel cuore della fanciulla un amore uguale al suo?


Ero vezzosa che d'illustre sangue
Scendea, sacerdotessa a Vener' era;
E delle nozze ignara, al mar vicina
Torre avita abitava, altra Ciprigna.

🖋 Parafrasi

Ero, giovane piena di grazia e discendente da nobile stirpe, era sacerdotessa di Venere; ignorava ancora l'esperienza delle nozze e abitava, presso il mare, in un'antica torre ereditata dalla sua famiglia, come fosse un'altra Venere.

🔎 Note testuali

"Ero vezzosa che d'illustre sangue": Ero è una giovane vergine di famiglia aristocratica, consacrata alla dèa Afrodite.

👉 Vergine consacrata e sacerdozio femminile nella Grecia antica

Nell'antica Grecia, la condizione di vergine consacrata a una divinità comportava un ruolo religioso, sociale e simbolico di grande rilievo. Le ragazze destinate al servizio divino erano spesso appartenenti a famiglie aristocratiche e venivano selezionate per ricoprire uffici sacerdotali presso i templi. Nel caso di Ero, sacerdotessa di Afrodite (la Venere latina), la sua funzione era collegata al culto della dèa dell'amore, della bellezza e della fertilità.

A differenza del modello romano delle vestali, che prevedeva un voto di castità per trent'anni, in Grecia le restrizioni variavano a seconda della divinità e della polis. Tuttavia, per molte sacerdotesse di Afrodite, la verginità era condizione d'accesso all'ufficio, in quanto simbolo di purezza rituale, ma non necessariamente perpetua: in alcune città, una volta concluso l'incarico sacro, la sacerdotessa poteva tornare alla vita civile e sposarsi. La purezza era dunque funzionale al servizio cultuale, piuttosto che morale o ascetica.

Le funzioni sacerdotali comprendevano:
curare il culto: riti quotidiani, sacrifici, processioni, offerte;
presiedere a feste e misteri della dèa;
custodire il tempio e il suo arredo sacro;
rappresentare simbolicamente la dèa stessa, in alcuni rituali, attraverso danze, vesti e gesti codificati.

Essere sacerdotessa significava quindi detenere un'autorità religiosa e al tempo stesso sociale, pur mantenendosi in una sfera separata rispetto alla cittadinanza maschile. Il corpo stesso della sacerdotessa era percepito come mediatore del divino, e ogni violazione del suo stato (volontaria o forzata) poteva essere vista come profanazione.

Nel mito di Ero e Leandro, il legame amoroso tra la sacerdotessa e l'amato rappresenta perciò una trasgressione rituale, ma anche una tensione archetipica tra purezza sacrale e desiderio umano, tra dovere e passione. È proprio questo conflitto a rendere la vicenda tragica e profondamente poetica.


Casta e pudica, il conversar fuggia
Colle adunate donne e il danzar lieto
Della a se pari gioventù, schivando
Delle donne il livor, chè invidïose
Furô del bello altrui le donne ognora.

🖋 Parafrasi

Castissima e riservata, evitava la conversazione con le donne che si radunavano e rifuggiva dalle feste danzanti della gioventù a lei coetanea, schivando anche l'invidia delle donne, da sempre gelose della bellezza altrui.


E sempre Citerea placando, spesso
Propizïava Amor co' libamenti,
E la Madre celeste e in un del Figlio
L'infocata faretra paventando.
Pur non scampò l'ignifere saette.

🖋 Parafrasi

Ero, cercando di propiziarsi Citerea (Venere), spesso onorava anche Amore con libazioni rituali, temendo sia la Madre celeste che la faretra infuocata del Figlio (appunto Amore). Tuttavia, non riuscì a sfuggire alle frecce ardenti dell'amore.


Venner le ciprie feste, in cui celébra
Venere e Adone il popolo di Sesto.
Correano in folla al sacro giorno quanti
Abitavano l'isole vicine
Che il mar bagna d'intorno. Altri d'Emonia,
Altri venian della marina Cipro:

🖋 Parafrasi

Giunsero le feste ciprie, nelle quali il popolo di Sesto celebra Venere e Adone. Accorrevano in folla, nel giorno sacro, tutti gli abitanti delle isole circostanti bagnate dal mare. Alcuni venivano dall'Emonia, altri dall'isola marina di Cipro.

🔎 Note testuali

Festa di Venere e Adone:

"Altri d'Emonia... Cipro": l'Emonia, così detta dal monte Emo, o da Emone figlio di Deucalione, è la Tessaglia. Cipro ha conservato il suo nome impostole da una figlia di Cinira, o da un fiore non dissimile dal ligustro.

👉 Le feste religiose nell'antica Grecia

Le feste religiose (ἑορταί, heortai) erano tra i momenti più importanti della vita pubblica e privata nell'antica Grecia: costituivano un tempo sacro che interrompeva il quotidiano per rinsaldare i legami della polis e onorare le divinità attraverso riti, giochi, banchetti e spettacoli. Ogni città ne possedeva un calendario dettagliato, diverso da luogo a luogo, spesso legato a culti locali e a tradizioni antichissime.

Tra gli elementi comuni:

Uno dei casi più suggestivi è proprio quello delle feste in onore di Venere e Adone. Esse si celebravano in particolare a Cipro, dove il culto di Afrodite era centrale (Paphos, Amatunte, Cizio). Le Adonie, feste in ricordo della morte precoce e tragica di Adone (uno degli episodi più commoventi e simbolicamente ricchi del mito antico), amante prediletto della dèa, mescolavano:

Queste feste avevano un forte carattere iniziatico e femminile: a volte erano riservate alle sole donne, che passavano la notte cantando, danzando e lamentando la morte del dio, per poi celebrarne simbolicamente il ritorno.

Le feste in onore degli dèi erano occasione di rinnovamento simbolico, ma anche espressione di identità civica e coesione comunitaria. Parteciparvi era un dovere e un onore, e costituivano momenti intensamente vissuti, in cui il sacro e il profano si intrecciavano. Si trattava, in sostanza, di un teatro religioso del mondo in cui la città si guardava, si celebrava e si riconosceva sotto gli occhi degli dèi.

👉 Il mito di Adone: amore e morte

Adone era un giovane di bellezza straordinaria, nato dall'unione incestuosa tra Mirra (o Smirna) e suo padre, re Cinira di Cipro. Secondo la versione più diffusa, Afrodite lo trovò bambino, se ne innamorò e lo affidò a Persefone, regina degli Inferi, perché lo crescesse. Ma anche Persefone si innamorò del giovane: nacque così una contesa tra le due dèe. Zeus (o Calliope, secondo alcuni) stabilì allora che Adone passasse un terzo dell'anno con ciascuna delle due dèe e un terzo per sé – che però Adone dedicò tutto ad Afrodite. Ma il destino era già segnato: durante una battuta di caccia, un cinghiale lo assalì e lo uccise. Le versioni variano: il cinghiale fu inviato da Ares, geloso, oppure fu Marte stesso, sotto forma animale; o ancora, fu un destino cieco e crudele, espressione della precarietà della bellezza e della giovinezza.

Dal sangue di Adone versato sul terreno, Afrodite fece nascere l'anemone, fiore fragile e delicato,Peter Paul Rubens, La morte di Adone (1614) simbolo della bellezza effimera e della giovinezza che svanisce. Il dolore della dèa fu così profondo da dar vita ai riti adoniaci, celebrati ogni anno da donne greche (soprattutto ad Atene e a Cipro) in occasione degli Adonie, rituali che univano il lamento funebre per la morte di Adone e la celebrazione della sua bellezza. Questi riti rappresentavano simbolicamente la morte e resurrezione ciclica della natura, proprio come accade nei culti agrari legati a figure come Attis o Osiride. Adone così divenne emblema della giovinezza che muore, ma anche della forza vitale che torna.

Il mito fu ripreso da molti autori:

  • Ovidio, Metamorfosi X, è la fonte latina più dettagliata, con grande forza emotiva.
  • Bione di Smirne, nel suo Lamento per Adone, compone un commovente epillio elegiaco.
  • Shakespeare, nel poemetto Venus and Adonis (1593), accentua l'innocenza di Adone e la bruciante passione di Venere.
  • Teocrito, nei suoi Idilli, allude alla festività adoniaca.
  • Boito, nel proemio a Ero e Leandro, riecheggia il mito di Adone nel richiamo all'amore eterno e dolente.


Donna a Citera non restò, nè a' gioghi
Del Libano odoroso alcun saltante
O abitator di Frigia o cittadino
Della vicina Abido, e non alcuno
De' giovinetti di donzelle amanti
Che sempre vanno ove di festa è fama,
Non solo onde offerir vittime ai Numi
Quanto per la beltà delle fanciulle
Ch'ivi s'accolgon –

🖋 Parafrasi

Non rimase nessuna donna a Citera, né sui monti profumati del Libano alcun danzatore, né abitanti della Frigia, né cittadini della vicina Abido; e nemmeno alcun giovane amante delle ragazze mancò, poiché questi sempre si dirigono dove si celebra una festa famosa. E ciò non soltanto per offrire sacrifici agli dèi, ma anche attratti dalla bellezza delle giovani donne che lì si radunavano.

🔎 Note testuali

"Citera... Libano": "Citèra (in ebraico rupe) è l'odierna Cerigo, isola posta fra Creta ed il Peloponneso. Fu così detta dai molti scogli che la circondano. Il Libano, celeberrimo monte della Siria, era sacro a Venere Biblide, o Astarte, e del tempio a lui dedicato e dei folli riti che v'erano in uso, parla lungamente Luciano (o piuttosto il Sofista, che ne usurpò il nome) nel suo Discorso sulla dèa Siria" (De Spuches, 1860).

Il desiderio dei giovani: l'accorrere di giovani da varie città richiama un altro topos letterario: l'amore di una sola fanciulla che suscita il tumulto di intere comunità (cfr. Elena di Troia).

👉 La bellezza del corpo, la nudità e il pudore nell'antica Grecia

L'antica Grecia è forse la prima civiltà occidentale a elaborare un'idea sistematica di bellezza corporea, in cui l'estetica del corpo umano si intreccia profondamente con valori morali, religiosi, agonistici e sociali. Il corpo, nella cultura greca, non è semplicemente oggetto di desiderio, ma anche immagine del kosmos, specchio dell'ordine, dell'armonia e della misura. L'ideale di kalokagathía – «bello e buono» – unisce qualità estetiche e virtù etiche, delineando un'unità inscindibile tra l'aspetto fisico e la nobiltà d'animo.

👉 Nudità e poesia: un corpo per cantare il desiderio

Nella poesia arcaica e classica, la bellezza corporea è spesso espressa attraverso immagini delicate, sensuali e misurate. Nei versi di Saffo, la femminilità si disvela nei gesti, nelle parti del corpo evocate con pudore e tenerezza: le labbra, il collo, le mani, i piedi, i capelli. La nudità non è mai brutale: è velata, parziale, carica di pathos. Il corpo femminile è uno spazio lirico, oggetto di contemplazione e desiderio, ma anche soggetto che desidera.

Diversa la rappresentazione maschile nella poesia epica o simposiale: nell'Iliade, i corpi nudi degli eroi (Achille, Patroclo, Ettore) sono esposti nella lotta, nella morte, nella gloria. Sono corpi forti, solenni, luminosi, in cui il nudo ha una funzione eroica e sacrale. Nella poesia simposiale (Tirteo, Mimnermo), il corpo è celebrato nella sua forza giovanile, nelle gare, nella danza, nell'amore omosessuale idealizzato.

👉 Scultura: il nudo come manifestazione del divino e dell'umano perfetto

Nella scultura greca, la nudità assume un valore centrale, soprattutto a partire dal periodo classico. L'ideale del nudo maschile trova la sua massima espressione nei kouroi arcaici e nelle statue di atleti e dèi del V secolo a.C. Il corpo è proporzionato, geometrico, privo di tempo: è simbolo di ordine e perfezione. Opere come il Doriforo di Policleto, basato sul Canone, illustrano la fusione tra matematica e bellezza, tra ethos e fisicità.

Più complesso è il discorso sul nudo femminile, meno frequente in epoca arcaica e classica. Solo con Prassitele (IV sec. a.C.) e la celebre Afrodite di Cnido il corpo della donna viene mostrato integralmente nudo, ma in un atteggiamento che unisce desiderio e pudore: la dèa si copre il pube con una mano, nel gesto chiamato venus pudica, divenuto modello per secoli. La nudità, in questo caso, non è esibizione, ma rivelazione simbolica della potenza amorosa e divina.

👉 Ginnasio, agoni, efebia: il corpo nella vita della polis

La bellezza corporea non è solo un tema letterario o artistico: è parte integrante della vita pubblica. Nei ginnasi, nelle palestre, nei giochi panellenici, i giovani greci si allenano nudi. Il corpo è addestrato non solo per la guerra, ma anche per incarnare l'ideale del cittadino perfetto.

Nei giochi olimpici e nei concorsi atletici, la nudità è obbligatoria per i maschi, e rappresenta fierezza, competizione e libertà. Persino in alcuni certamina poetici o musicali, come quelli in onore di Apollo a Delfi, l'aspetto fisico dei partecipanti poteva giocare un ruolo. Il corpo bello era segno di favore divino.

Accanto a questi, esistevano anche concorsi di bellezza veri e propri, detti eueideia, documentati per lo più in epoca ellenistica, ma probabilmente già praticati in ambiti rituali o comunitari. La bellezza non era solo oggetto di lode, ma titolo di merito sociale.

👉 Pudore, svelamento, simbolo

Il concetto di pudore (aidōs) non è negazione della nudità, ma consapevolezza del proprio valore e della sua esposizione. Nella tragedia, il corpo esposto – pensiamo ad Antigone o ad Alcesti – è spesso legato al sacrificio, al dolore, alla morte. Il pudore è legato all'etica, non all'occultamento.

La nudità può essere segno di dignità o di degradazione, secondo il contesto: per un eroe, è nobile; per un prigioniero o uno schiavo, è vergognosa. Ma sempre, essa parla un linguaggio culturale e simbolico, che la società greca comprendeva profondamente.

👉 Riferimenti utili


– Della Dea pel tempio
La vergin' Ero s'aggirava, e dolce
Il volto risplendea come nascente
Luna di bianche guance; i giri estremi
Delle candide gote rosseggiavano
Quale in doppio color sbuccia la rosa.

🖋 Parafrasi

Nel tempio della Dèa si aggirava la vergine Ero, e il suo dolce volto splendeva come la luna nascente, con guance bianchissime; ai bordi delle gote si notava un rossore, simile al doppio colore visibile quando si apre una rosa.

🔎 Note testuali

Ero:

Descrizione di Ero (viso come luna, guance come rosa):


E tu diresti certo il corpo d'Ero
Prato di rose, ch'ella avea le membra
Di vermiglio colore, e mentre avvolta
In bianche vesti se ne gia, le rose
Splendean sotto i talon' della fanciulla.
Dalle membra scorrean molte le grazie;
E ben tre sole fingendo le Grazie
Mentir gli antichi, un solo occhio ridente
D'Ero schiudeane cento.

🖋 Parafrasi

E tu avresti detto che il corpo di Ero fosse un prato di rose, tanto le sue membra avevano un colore rosato; e mentre, avvolta in bianche vesti, camminava, sembrava che le rose sbocciassero sotto i piedi della fanciulla. Dal suo corpo fluivano così tante grazie, che gli antichi, immaginando solo tre Grazie, avevano mentito: un solo sguardo ridente di Ero ne faceva splendere cento.

🔎 Note testuali

"prato di rose": similitudine per il corpo di Ero, delicato e rosato.

Grazie:


Di se degna
Ciprigna avea sacerdotessa, ed ella
A Venere ministra, ogni altra donna
Vincendo, n'apparia nuova Ciprigna;
E le tenere menti a se traendo
De' giovinetti, a ciaschedun nel core
Stavan d'Ero le nozze.

🖋 Parafrasi

Venere aveva trovato una sacerdotessa degna di sé: Ero, servendo la Dèa, superava in bellezza tutte le altre donne, e sembrava essa stessa una nuova Venere. Ero, attirando a sé i giovani con la sua grazia, suscitava in ognuno di loro il desiderio di sposarla.


Ella vagando
Pel ben fondato tempio, e gli occhi e i cori
E le menti involava; e tra i garzoni
Disse talun maravigliando: a Sparta
Io n'andai pure, e Lacedemon vidi
Ove udiam per bellezza aver le donne
Affanni e risse; più leggiadra io mai
Vergin non vidi, o molle più.

🖋 Parafrasi

Mentre si aggirava per il solido tempio, rapiva gli sguardi, i cuori e i pensieri dei giovani; e tra questi qualcuno, pieno di stupore, disse: "Anche io sono stato a Sparta, e ho visto Lacedemone, dove si dice che per la bellezza delle donne sorgano contese e rivalità; ma mai vidi vergine più leggiadra e dolce di questa".

🔎 Note testuali

"ove udiam per bellezza aver le donne / affanni e risse": "In Elide, in Lacedemone, ed in altre parti solevano farsi dei concorsi di bellezza fra le donne, e premiarsi largamente le vincitrici" (De Spuches, 1860).


Fors'una
Delle giovani Grazie ha qui Ciprigna.
Stanco son di mirarla, e sazio ancora
Di mirarla non son: muoiami tosto
Salito d'Ero il letto.

🖋 Parafrasi

"Forse Ciprigna (Venere) ha mandato qui una delle giovani Grazie. Sono stanco di guardarla, eppure non ne sono mai sazio; vorrei morire subito, purché possa salire sul letto di Ero".

🔎 Note testuali

"Stanco son di mirarla, e sazio ancora / di mirarla non son": Sazio non sono ancora e son già lasso / di riguardar il bel viso lucente (Bojardo, Canzoniere son. 55).


Io Nume in cielo
Esser non bramerei, se per consorte
Ero menassi. Che se a me non lice
La tua sacerdotessa, o Citerea,
Di toccare, ah tu almeno a me concedi,
Simile a questa, giovinetta sposa.
Così diceano, ed altri in sen celando
La ferita, impazzian per la fanciulla.

🖋 Parafrasi

"Non desidererei nemmeno essere un dio in cielo, se potessi avere Ero come sposa. E se non mi è concesso, o Citerea, toccare la tua sacerdotessa, concedimi almeno una giovane sposa simile a lei". Così parlavano alcuni, mentre altri, nascondendo la loro ferita d'amore, impazzivano segretamente per la fanciulla.

🔎 Note testuali

Ferita d'amore: gli occhi come strumenti di ferimento amoroso sono un'immagine canonica nella letteratura antica e medievale (Ovidio, Ars Amatoria; poi la lirica cortese).


Sventurato Leandro! allorché vista
Ti fu l'inclita Vergine, d'occulti
Stimoli non volesti aggravar l'alma;
Nè, vinto d'improvviso dagli ardenti
Strali, viver senz'Ero. E già la fiamma
Crescea de' lumi al saettare, e in petto
Il cor t'ardea d'inestinguibil foco.

🖋 Parafrasi

Povero Leandro! Quando i tuoi occhi videro la nobile vergine, non volesti sopportare nell'anima il peso di desideri segreti; né, colpito all'improvviso dalle ardenti frecce d'Amore, potesti più vivere senza Ero. E già, mentre guardavi, la fiamma dell'amore cresceva, e nel tuo petto il cuore bruciava di un fuoco inestinguibile.


Peregrina bellezza è al cor dell'uomo
D'ogni dardo più acuta. È sentier l'occhio,
E van per gli occhi le ferite al core.
Stupor lo prese, e in un divenne ardito,
Tremante, verecondo. Il cor tremava;
D'esser preso arrossìa.

🖋 Parafrasi

Una bellezza straniera trafigge il cuore dell'uomo più di qualsiasi freccia. Gli occhi sono la via, e attraverso di essi le ferite arrivano al cuore. Leandro fu preso da stupore, ma nello stesso tempo divenne audace, pur tremando e provando vergogna. Il suo cuore tremava, ed egli arrossiva di vergogna per sentirsi conquistato.

🔎 Note testuali

"tremante, verecondo...": Leandro arrossisce, trema, esita: la psicologia del giovane innamorato è delineata con tratti quasi moderni, teneramente realistici.


Stupì mirando
Tanta bellezza. Amor tolse il pudore,
E fatto audace dall'amor, movendo
Tacitamente i passi, a la fanciulla
Si stette incontro; frodolenti gli occhi
Sogguardando volgea, con muti cenni
Disviando la mente alla donzella.

🖋 Parafrasi

Restò stupito a contemplare tanta bellezza. Amore gli tolse ogni pudore e, reso audace dal sentimento, avanzò a passi silenziosi incontro alla fanciulla. Muoveva furtivamente gli occhi, lanciando sguardi obliqui e compiendo silenziosi gesti per attrarre l'attenzione della ragazza.


Ma poiché scorta di Leandro ell'ebbe
L'insidiosa brama, si compiacque
Di sua bellezza, e taciturna spesso
Ricoprendo il bel volto, al giovinetto
D'amor die' segno con occulti moti;

🖋 Parafrasi

Ma quando Ero si accorse del desiderio nascosto di Leandro, si compiacque della propria bellezza, e, pur rimanendo silenziosa, coprendo spesso il volto, rispondeva all'amore del giovane con gesti nascosti.


E di nuovo a rimpetto ei le fea cenno
E in cor gioiva, che l'amor compreso
Non isdegnasse la fanciulla; e mentre
Ricercava Leandro ora più occulta,
Scese, la luce ritraendo, il Sole
All'Occaso, e l'ombrosa Espero apparve.

🖋 Parafrasi

E ancora Leandro, di fronte a lei, le faceva cenno, gioendo in cuor suo che Ero, avendo compreso il suo amore, non lo disdegnasse. E mentre Leandro cercava ora di nascondersi meglio, il Sole calava portando via la luce, e la sera ombrosa, personificata da Espero, faceva la sua comparsa.


Audace alla fanciulla ei s'accostava,
E poiché vide col ceruleo peplo
Sorger la notte, dolcemente strinse
A lei le rosee dita, e dal profondo
Del suo cor sospirava;

🖋 Parafrasi

Leandro, reso audace, si avvicinava alla fanciulla e, vedendo che la notte avvolgeva il cielo con il suo manto azzurro, le prese dolcemente le dita rosate e sospirò profondamente dal cuore.


Ero tacendo
La rosea man ritrasse, in atto quasi
Sdegnosa; ed ei che dell'amata scorse
Gl'incerti moti, audace il ben tessuto
Manto ne prese, e ne' recessi estremi
Del tempio venerando la condusse.

🖋 Parafrasi

Ero, senza parlare, ritirò la sua mano rosata, con un gesto che sembrava quasi di sdegno. E Leandro, accortosi dell'incertezza nei gesti dell'amata, prese audacemente il suo bel manto e la condusse negli angoli più nascosti del venerando tempio.


Con tardo piede, qual di chi non vole,
Ero il seguiva, e in femminili accenti
Così Leandro minacciò: Straniero,
A che vaneggi, e perchè sciaurato
Me vergine molesti? Altra via tieni.
Lascia il manto, e lo sdegno de' possenti
Miei genitor' paventa; a te non lice
Insidiar chi a Vener serve: al letto
Di vergin malagevole è l'accesso.

🖋 Parafrasi

Ero lo seguiva con passo esitante, come chi non vorrebbe farlo, e rivolgendosi a Leandro con voce dolce e femminile, così lo minacciò: "Straniero, perché deliri? E perché, infelice, molesti me, una vergine? Cercati un'altra strada. Lascia andare il mio manto e temi l'ira dei miei potenti genitori. Non ti è lecito insidiare chi è consacrata a Venere: l'accesso al letto di una vergine è arduo".


Tal, come vergin debbe, ella minaccia.
Ma poiché udì Leandro le donnesche
Minacce e l'ira, i segni riconobbe
Delle donzelle persuase. Quando
Minacciano le donne i giovinetti,
Di Vener nunzie ognor son le minacce.

🖋 Parafrasi

Così, come si addice a una vergine, ella lo minacciava. Ma Leandro, udendo quelle minacce femminili e quella finta ira, riconobbe nei suoi atteggiamenti i segni tipici delle fanciulle già persuase. Quando le donne minacciano i giovani, quelle minacce sono sempre annunziatrici dell'amore di Venere.


Ed il ben colorito ed olezzante
Collo baciando alla fanciulla, caldo
D'amore esclama: Oh dopo di Ciprigna
Cara Ciprigna, e dopo di Minerva
Altra Minerva! Te donna mortale
Io già non chiamerò, te del Saturnio
Pari alle figlie.

🖋 Parafrasi

E baciando il collo ben colorito e profumato della fanciulla, pieno di passione, Leandro esclamò: "Oh, dopo Ciprigna, tu sei un'altra cara Ciprigna, e dopo Minerva, un'altra Minerva! Non ti chiamerò donna mortale, ma pari alle figlie del Saturnio (Zeus)".

🔎 Note testuali

"collo baciando alla fanciulla": nel linguaggio poetico antico, il collo è evocato come parte intima ed erotica. Oltre a contenere una forte carica erotica implicita, rientra in un codice letterario ben definito, soprattutto nella poesia erotica greca e latina, dove parti del corpo vengono spesso scelte come synecdoché (ςυνεκδοχή) del desiderio, o per evocare un erotismo più psicologico che esplicito.

👉 Il collo come oggetto erotico nella letteratura antica

👉 A margine

👉 Riferimenti utili


Oh quegli avventurato
Che ti die' vita, avventurata madre,
Felicissimo il sen che ti produsse!
Ma tu mie preci ascolta, dell'amore
Alla forza perdona, e l'opra siegui
Di Venere, tu a Venere ministra.

🖋 Parafrasi

"Oh, fortunato quell'uomo che ti ha dato la vita, e fortunata tua madre; felicissimo il grembo che ti ha generata! Ma ora ascolta le mie suppliche: perdona alla forza dell'Amore e asseconda l'opera di Venere, della quale tu sei ministra".


Or qua ne vieni, e i maritali impara
Riti del Nume. A vergin non s'addice
Servir Ciprigna, nè Ciprigna gode
Di vergin'. Brami l'amorose leggi
E i sacri riti? Nozze sono e letti.

🖋 Parafrasi

"Vieni dunque verso di me, e impara i riti nuziali prescritti dalla dèa. Non è compito di una vergine servire Ciprigna (Venere), né Ciprigna prova gioia nell'essere servita da una vergine. Desideri davvero conoscere le leggi dell'amore e i riti sacri? Ebbene: queste leggi e questi riti sono il matrimonio e il talamo nuziale".

🔎 Note testuali

✔ Venere / Ciprigna / Citerea: tutti epiteti della dèa Afrodite (Venere per i Romani), dèa dell'amore. "Ciprigna" (da Cipro) e "Citerea" (da Citera) richiamano le isole legate al suo culto.


Ah, se Vener t'è cara, e degli amori
Care ti sien le leggi, che la mente
Vincon. Supplice tuo me accogli, e sposo
Se il vuoi, che per te in caccia Amor co' strali
Giunto m'ha e preso.

🖋 Parafrasi

"Ah, se ami davvero Venere e tieni cari i suoi comandamenti amorosi, che vincono ogni mente, allora accoglimi come tuo supplice – e, se vuoi, anche come tuo sposo. È per causa tua che Amore mi ha colpito con i suoi strali, e mi ha catturato".

🔎 Note testuali

✔ "Amor co' strali": Eros, dio dell'amore, figlio di Venere, armato di arco e frecce che fanno innamorare.


Tal l'ardito Alcide
Un di l'Iardania ninfa a servir tratto
Fu dal veloce da la verga d'oro
Mercurio. A te Vener m'invia, nè il saggio
Mercurio adduce.

🖋 Parafrasi

"Così, un giorno, il coraggioso Eracle (Ercole) fu indotto a servire una ninfa dell'Iardania (Onfale, regina della Lidia) per volontà di Mercurio, messaggero dai sandali alati e dal bastone d'oro. Ebbene, anche a me, per giungere a te, mi manda Venere; non il saggio Mercurio, ma Venere stessa, dèa dell'amore".

🔎 Note testuali

✔ Alcide / Eracle: Eracle (Ercole per i Romani) è qui detto Alcide, dal nome di suo nonno Alcèo. È il grande eroe greco, simbolo di forza.

✔ Ninfa di Iardania: allusione a Onfale, regina della Lidia (in Asia Minore), che costrinse Eracle a servirla, vestito da donna. → Eracle, dopo le sue famose fatiche, fu condotto in Asia da Mercurio e messo in vendita come schiavo (per espiare l'omicidio di Ifito, commesso in un accesso di furore). Onfale, figlia di Iardano re di Meonia, lo acquistò per tre talenti d'argento ("il prezzo del sangue", offerti ad Eurito quale risarcimento per la morte del figlio, ma da questi rifiutati). Durante il periodo di schiavitù presso Onfale (per un periodo durato da uno a tre anni), Eracle fu costretto a svolgere mansioni femminili e a vestirsi da donna, finendo per diventare il suo amante e avere con lei dei figli (Ati, Agelao e Tirreno).

✔ Mercurio: Hermes per i Greci, dio messaggero, che con la verga d'oro (il caduceo) guidava le anime e compiva missioni divine. Qui è ricordato come colui che, con il suo potere, costringe gli eroi a nuove vie.


Sai come Atalanta
Onde vergin serbarsi, dell'amante
Milanïon fuggiva il letto: in core,
Quel che pria non amò, Ciprigna irata
Tutto le pose; e tu pur cedi, o cara,
Nè ridestar di Citerea lo sdegno.

🖋 Parafrasi

"Ricordi come Atalanta, desiderosa di conservare la propria verginità, fuggiva dal letto di Melanione? Tuttavia, Ciprigna (Venere), irritata contro di lei, le instillò nel cuore un amore irresistibile – e così Atalanta si arrese. Anche tu, dolce fanciulla, cedi ora: non provocare lo sdegno di Citerea (altro epiteto di Venere)".

🔎 Note testuali

✔ Atalanta: fanciulla bellissima e velocissima nella corsa, decisa a rimanere vergine. Melanione (o Ippomene) la conquistò con l'aiuto di Venere, grazie all'astuzia dei pomi d'oro.

✔ Melanione (o Ippomene): giovane che amò Atalanta e riuscì a batterla in corsa, conquistandola come sposa. Venere è colei che muta il cuore di Atalanta, facendola cedere all'amore.

👉 La storia di Atalanta

Atalanta era una fanciulla di straordinaria bellezza e di eccezionale velocità nella corsa. Figlia del re Schenèo (o, secondo altre versioni, di Iasio o Mainalo), fu esposta alla nascita perché il padre voleva un figlio maschio. Salvata da una lupa o da cacciatori, crebbe nei boschi, diventando una cacciatrice abilissima e una vergine votata ad Artemide, decisa a non sposarsi mai. Temendo di essere costretta al matrimonio, Atalanta impose una sfida ai suoi pretendenti: «Chi vorrà sposarmi dovrà battermi in corsa; chi perderà, sarà messo a morte».
Guido Reni, Atalanta e Ippomene (1620?)Molti giovani tentarono, ma nessuno riusciva a batterla: uno dopo l'altro venivano sconfitti e giustiziati, secondo la sua volontà. Melanione (chiamato anche Ippomene in alcune versioni, ad esempio in Ovidio Metamorfosi, libro X) si innamorò perdutamente di Atalanta. Sapendo di non poterla superare con la sola velocità, ricorse a un astuto stratagemma. Pregò la dèa Afrodite (Venere) di aiutarlo. La dèa gli diede tre pomi d'oro, frutti del leggendario giardino delle Esperidi. Durante la corsa, ogni volta che Atalanta sembrava superarlo, Melanione lasciava cadere un pomo d'oro: la fanciulla, incuriosita e tentata dalla bellezza del frutto, si fermava puntualmente a raccoglierlo. Così facendo, perdeva terreno – e alla fine fu battuta da Melanione. Atalanta, vincolata dalla sua promessa, dovette sposarlo. Ma la loro felicità ebbe breve durata: presi dalla passione, consumarono l'amore in un tempio sacro a Cibele (o, secondo altre versioni, a Zeus stesso), profanandolo. Per punizione, furono trasformati in leoni – destinati a trainare il carro della dèa, o a vagare insieme, incapaci di unirsi fisicamente (poiché secondo antiche credenze i leoni non si accoppiano tra loro ma solo con altri felini).

👉 A margine

Fonti
Elementi principali
Ovidio, Metamorfosi,
Libro X
Narrazione poetica più celebre e raffinata della storia; introdotta tra le storie di Venere ed Adone.
Pausania, Descrizione della Grecia Variante più "storica" e rituale della leggenda.
Apollodoro, Biblioteca Sintesi mitologica ordinata, sottolinea la sfida mortale ai pretendenti.
Igino, Fabulae Brevi riassunti che confermano la punizione della trasformazione.


Così disse Leandro, e alla ritrosa
Donzella il cor piegò, l'alma allacciando
Tra l'amorose note.

🖋 Parafrasi

Così parlò Leandro; e riuscì, con queste parole amorose, a piegare il cuore riluttante della fanciulla, legandola a sé con i vincoli dell'amore.

📌 Museo intreccia mitologia e psicologia: il discorso di Leandro non è un semplice invito all'amore, ma un'orazione retoricamente potente, ricca di esempi (exempla) mitologici, tutta tesa a mostrare:

Un modello classico di seduzione argomentativa, che troveremo poi amplissimo anche in Ovidio (Ars amatoria) e nella poesia amorosa medievale.


Al suolo tacita
Ero volgea lo sguardo, e di pudore
Coprì la guancia rosseggiante, e il suolo
Lievemente co' pie' radendo, spesso
Vereconda a le spalle il manto strinse;
Di vinto spirto atti forieri. Sempre
De le donzelle persuase al letto
Fu promessa il silenzio.

🖋 Parafrasi

Ero, in silenzio, abbassava lo sguardo verso terra e, per il pudore, si copriva le guance arrossate; sfiorava lievemente il suolo con i piedi e, timida, stringeva più volte il mantello sulle spalle: tutti segni che preannunciavano l'arrendersi del suo spirito. Il silenzio, da sempre, è la promessa di quelle fanciulle che sono ormai persuase ad abbandonarsi all'amore.


E già d'amore
Il dolce-amaro stimolo accoglieva
La vergin Ero, e di soave fiamma
Ardea nel petto, a la beltà mirando
Dell'amabil garzone.

🖋 Parafrasi

Già la vergine Ero sentiva dentro di sé il dolce-amaro pungolo dell'amore, e ardeva nel petto di una soave fiamma mentre contemplava la bellezza del giovane amabile.


E mentre al suolo
Fiso lo sguardo ella tenea, Leandro
Di smanioso amore in volto acceso
Di rimirar non si stancava il vago
Collo de la fanciulla.

🖋 Parafrasi

Mentre Ero teneva fisso lo sguardo a terra, Leandro, acceso in volto dal desiderio, non si stancava di contemplare il grazioso collo della fanciulla.


Ero frattanto
Vergognosa stillando dal bel volto
Pudor, così parlò dolce all'amato:
Stranier, co' detti tuoi forse una pietra
Mossa avresti. Chi mai le vie t'apprese
D'ingannevoli detti? E chi in mia patria,
Me lassa, te condusse?

🖋 Parafrasi

Intanto Ero, vergognosa e stillante pudore dal suo bel volto, parlò dolcemente all'amato: "Straniero, con le tue parole saresti riuscito a smuovere perfino una pietra. Chi mai ti ha insegnato l'arte di parole tanto ingannevoli? E chi, ahimè, ti ha condotto nella mia patria?".


– Or però indarno
Tutto dicesti: e come, sconosciuto
Errante pellegrin, meco tu vuoi
Stringerti con amore? A te in palesi
E sante nozze unirmi io già non posso,
Chè il voler de' miei padri il vieta; e s'anco,

🖋 Parafrasi

"Tuttavia, hai parlato invano: come puoi tu, straniero errante e sconosciuto, pretendere di unirti a me con vincolo d'amore? Io non posso unirmi a te con nozze legittime e pubbliche, poiché la volontà dei miei genitori lo proibisce".


Siccome vago forestier volessi,
Rimanerti in mia patria, non potrai
Celar l'ascosa Vener, chè mordace
Degli uomini è la lingua, e ciò che alcuno
Ascosamente oprò, ne' trivj ascolta.

🖋 Parafrasi

"E anche se tu, come affascinante straniero, volessi fermarti nella mia patria, non potresti nascondere il nostro amore segreto, perché la lingua degli uomini è tagliente, e ciò che si compie in segreto viene poi risaputo nelle piazze".

🔎 Note testuali

"l'ascosa Vener": indicazione dell'amore carnale clandestino.

"ché mordace / degli uomini è la lingua...": non è una semplice constatazione di pettegolezzo, bensì una riflessione amara e profonda sul peso del giudizio collettivo, sulla fragilità della reputazione, e su quella forza invisibile ma devastante che è la parola altrui.

Questa affermazione, solo in apparenza proverbiale, tocca un nodo essenziale della società greca antica (e non solo): la centralità della doxa, dell'opinione altrui, nella costruzione dell'identità pubblica.

La lingua mordace è immagine della voce collettiva che giudica, denuncia, condanna, spesso senza sapere, ma sempre con efficacia distruttiva. In un contesto comunitario come quello delle poleis, la reputazione (particolarmente per una donna, e ancor più per una sacerdotessa) è fragile e sorvegliata: ciò che si fa in segreto, prima o poi, "si ascolta nei trivî", cioè si sbandiera nei luoghi pubblici.

Il trivio – lo spazio dell'incontro casuale, della parola spicciola, del passaggio – diventa qui metafora dello sguardo sociale: niente resta nascosto a lungo, perché la comunità sorveglia con la lingua, anche più che con gli occhi.

Dunque, il pericolo non è solo l'amore proibito, ma la conseguenza sociale della sua scoperta: disonore, vergogna, esclusione. Il timore della "lingua mordace" è, in fondo, timore dell'infamia, dell'irrimediabile rottura tra individuo e ordine pubblico.

Questo passaggio riecheggia non solo la saggezza tragica greca, ma il dramma della coscienza morale, che sa che non è sufficiente amare: bisogna anche rispondere del proprio amore davanti al mondo. Ero lo sa. E Leandro – straniero, per giunta – non può che accettarlo.

📌 Voce pubblica e tragedia

Quella frase di Museo – "ché mordace degli uomini è la lingua" – è un vero cristallo tragico, un frammento che rifrange tutta la tensione tra individuo e comunità, tra desiderio privato e legge sociale, che è il nervo scoperto della tragedia greca. In essa, si condensa una delle grandi ossessioni del teatro attico: la forza giudicante della comunità.

Per i Greci, l'individuo non esiste isolatamente, ma è costantemente esposto allo sguardo e alla parola della polis. La fama (kleos) può elevare alla gloria, ma l'infamia (aischynē) può annientare. La voce collettiva non è solo rumore: è potere politico, morale, religioso.

Euripide è forse il più esplicito nel denunciare questo meccanismo:

  • In Ippolito, Fedra muore pur di non essere disonorata dal sospetto di un amore proibito.
  • In Medea, l'eroina si rivolta non solo contro il tradimento di Giasone, ma contro la condizione sociale della donna e la condanna silenziosa della città.
  • In Elettra, la figlia di Agamennone è ossessionata dalla vergogna pubblica e dalla necessità di riscatto dinastico agli occhi di Argo.

Anche in Sofocle, pensiamo ad Antigone: l'eroina si oppone a un editto, ma sa che la propria morte sarà anche la morte della sua reputazione, che spera sia nobilitata dal canto futuro del coro.

In tutti questi casi, la parola della città – la "lingua mordace" – pesa più degli stessi dèi: la vergogna pubblica è peggiore della morte; l'onore è legato alla voce altrui.

Nel mito di Ero e Leandro, questa dimensione tragica riaffiora: il loro amore, pur segreto, non può restare tale, perché nessun sentimento è mai del tutto privato, quando vive nel corpo e nella parola.

La "lingua mordace" anticipa la rovina non come fato, ma come inevitabilità sociale.


Ma non celarmi il tuo nome, e la patria.
Il mio già sai: mio nome è l'inclit'Ero.
Un'alta torre, cui d'intorno mugghia
L'onda, è mia casa, in che sola mi resto
Per grave cenno de' miei genitori
Con un'ancella, incontro a Sesto, e sopra
Rive d'acque profonde ho il mar vicino.

🖋 Parafrasi

"Ma non nascondermi il tuo nome e la tua patria: il mio già lo sai, sono la celebre Ero. La mia dimora è una torre alta, circondata dalle onde che mugghiano: vi abito sola, per ordine dei miei genitori, con una sola ancella; la torre è situata di fronte a Sesto, sulla riva di un mare profondo".


Meco non son di pari età donzelle,
Nè caròle di giovani, ma suono
Di mar ventoso notte e giorno freme
Negli orecchi. – Sì disse, e nascondea
Le rosee gote colla veste, e presa
Da pudor nuovo i detti suoi biasmava.

🖋 Parafrasi

"Non ho accanto a me giovani fanciulle della mia età, né posso partecipare a danze gioiose di giovinetti; giorno e notte mi giunge soltanto il suono del mare agitato dal vento". Così parlò, e poi nascose le sue guance rosate sotto il velo, rimproverandosi, presa da un nuovo pudore, per le parole appena dette.


Ma Leandro che in petto avea l'acuto
Pungolo del disio, pensava come
Giugner potesse all'amorosa lotta.
Con diverso consiglio Amor talora
Doma l'uomo co' strali, e la ferita
Sana ei stesso dell'uomo, e a cui sovrasta
Ei, domator di tutto, è consigliero.

🖋 Parafrasi

Ma Leandro, che nel petto sentiva l'acuto stimolo del desiderio, meditava su come potesse raggiungere la tanto sospirata unione amorosa. Talvolta Amore doma l'uomo con i suoi dardi e poi egli stesso guarisce la ferita che ha inflitto; e per chi è suo schiavo, Amore, che tutto domina, è anche consigliere.


E die' soccorso al giovine bramoso,
Che gemendo movea scaltre parole:
Vergine, ben per l'amor tuo vorrei
Gli aspri flutti solcar, s'anco per fuoco
L'acqua bollisse, e innavigabil fosse.

🖋 Parafrasi

E così Amore diede soccorso al giovane desideroso, che, sospirando, pronunciò parole accorte: "O vergine, per amor tuo io sarei pronto a solcare gli aspri flutti, anche se l'acqua ribollisse come fuoco e fosse impossibile da navigare".


Il mar non temo se al tuo letto è strada,
Non il sonante fremito dell'onde
Fragorose; ma sempre nella notte
A te portato, madido marito,
Io varcherò dell'Ellesponto ondoso
La rapida corrente, chè non lungi
A tua cittade incontro è posta Abido.

🖋 Parafrasi

"Non temo il mare se mi conduce al tuo letto, né il fragoroso tumulto delle onde. Ogni notte, spinto dal desiderio, attraverserò bagnato la corrente impetuosa dell'Ellesponto, poiché Abido, la mia città, si trova proprio di fronte alla tua".


Sol' dall'eccelsa torre una lucerna
Mostrami a notte, ond'io quella mirando
Fatto nave d'amor, per astro m'abbia
La tua lucerna, e non iscorga in cielo
L'aspro Orïone, e Boote cadente,
E del Carro l'asciutto tratto, e giunga
Dell'opposta tua patria al dolce porto.

🖋 Parafrasi

"Mostrami solo dalla tua alta torre una lucerna di notte, e guardandola, farò di me stesso una nave d'amore, prendendo quella luce come guida. E non guiderò la mia rotta seguendo le costellazioni, né Orione, né Boote in declino, né il secco tratto del Carro, ma solo la tua lucerna, e approderò dolcemente nella tua città".

🔎 Note testuali

✔ "per astro m'abbia / la tua lucerna": il paragone marinaro (la lucerna = stella guida, stella polare) rientra nella simbologia tradizionale del viaggio amoroso: il desiderio come viaggio notturno e rischioso.

✔ "e non iscorga in cielo": "Vuol dire che non avrà bisogno di osservare coteste costellazioni per dirigere il suo cammino a Sesto, sempreché dalla fanciulla sia posta fuori la fiaccola. Boote, Arturo, o Artofilace (cioè Bifolco, Coda dell'orsa, Custode dell'orsa) son nomi d'una costellazione posta vicino all'Orsa maggiore. Orione, altro asterismo che mai non tramonta, e che serviva di guida ai marinari, fu così detto dal nome d'uno di quegli Eroi primitivi, che purgarono la Terra dalle bestie feroci. Il Plaustro, o il Carro, è quella costellazione, che chiamasi Orsa maggiore, o Elice, e che poi dai Latini fu detta Settentrione" (De Spuches, 1860).


Ma ben ti guarda, o cara, non de' venti
Il grave soffio la lucerna estingua,
Lucida scorta di mia vita, e tosto
Io perda l'alma; che se vuoi mio nome
Saper veracemente, è il nome mio
Leandro de la bella Ero consorte.

🖋 Parafrasi

"Ma, o cara, abbi cura che il vento non spenga la lucerna, chiara guida della mia vita, perché, se si spegnesse, subito perderei l'anima. Se vuoi sapere il mio vero nome, io sono Leandro, il futuro sposo della bella Ero".


Così d'unirsi con occulto imene
Stabilirô gli amanti, e la lucerna
Aversi a testimonio, onde i notturni
Amor' servare e il nunzio delle nozze;
Ella di sporger la lucerna, ei l'ampia
Onda varcare.

🖋 Parafrasi

In questo modo i due amanti stabilirono di unirsi in un matrimonio segreto, avendo come unico testimone la lucerna, a custodire i loro amori notturni e a segnarne le nozze. Lei avrebbe avuto il compito di mostrare la lucerna; lui quello di attraversare il vasto mare.

🔎 Note testuali

✔ "occulto imene":


E come della notte
Ebber compiuti di vegghianti nozze
I dolci amplessi, si partian malgrado,
Separandosi a forza.

🖋 Parafrasi

E, una volta consumati i dolci abbracci notturni, si separavano a malincuore, costretti a dividersi.


Essa alla torre
I suoi passi rivolse, egli osservati,
Onde non travïar fra l'ombre, i segni
Della torre, nuotava al popol vasto
Del ben fondato Abido; e i nuziali
Occulti amplessi dell'intera notte
Desïando, porgean voti, onde sorta
Fosse la notte, che dei letti ha cura.

🖋 Parafrasi

Ero tornava verso la sua torre, e Leandro, seguendo i segni della torre per non smarrirsi nel buio, nuotava verso la popolosa e ben fondata città di Abido. Desiderando ardentemente di unirsi nuovamente in amplessi segreti, pregavano affinché la notte, custode dei letti d'amore, si levasse presto.

🔎 Note testuali

✔ "ben fondato Abido":

🌐 Abido (in greco Ἄβυδος), città della Troade, si trovava sulla sponda asiatica dell'Ellesponto, nell'attuale Turchia europea. Era una colonia milea, fondata probabilmente nel VII secolo a.C., e grazie alla sua posizione dominava il passaggio fra l'Asia e l'Europa. Luogo commerciale, militare e strategico, fu sede di templi e oggetto di contese persiane e greche.
🌐 Sesto (Σηστός), sulla sponda opposta, europea, corrisponde oggi alla zona turca di Gallipoli. Era una città fortificata, anch'essa posta su una via di transito cruciale. È il luogo da cui Serse, secondo Erodoto, fece costruire il celebre ponte di barche per attraversare l'Ellesponto nel 480 a.C., durante la seconda guerra persiana.
🌐 Ellesponto
– oggi Dardanelli – era più che un braccio di mare: era confine mitico, luogo di passaggio, di prova e di separazione. Attraversarlo, come fa Leandro ogni notte, è atto eroico e amoroso insieme, che carica il mito di tensione simbolica: l'amore attraversa le acque, sfida la natura, ma non può sconfiggerla per sempre.


E già n'uscia di tenebre vestita
La notturna caligine, a' mortali
Sonno recando; non all'infiammato
Leandro, che del mar fremente allora
Lungo il lido attendea de' rilucenti
Imeni l'imbasciata, al testimonio
Mirando de la lúgubre lucerna,
Che nunzia di lontano esser dovea
Del clandestino letto.

🖋 Parafrasi

Già emergeva la notte avvolta nelle sue tenebre, portando il sonno ai mortali – ma non al passionale Leandro. Egli, infatti, aspettava sulla riva agitata dal mare il segnale splendente che annunciasse le nozze. Fissava la lugubre lucerna, che da lontano avrebbe dovuto annunciare il clandestino incontro amoroso.


E come vista
Di tenebrosa notte ebbe la fosca
Caligin, la lucerna Ero sporgeva.
Accesa appena, Amore all'ansïoso
Leandro accese il cor.

🖋 Parafrasi

E non appena il buio della notte si infittì, Ero espose la lucerna. Non appena fu accesa, Amore infiammò ancora di più il cuore ansioso di Leandro.

🔎 Note testuali

✔ "fosca / caligin": fitta oscurità, nebbia notturna.


Colla lucerna
Ei stesso ardea; ma lungo il mar l'irata
Onda muggir sentì; ne tremò in prima,
Poi fatto audace, in cotai detti giva
Confortando il suo cor:

🖋 Parafrasi

Egli stesso sembrava bruciare come la lucerna. Ma udendo il mugghio minaccioso delle onde del mare, dapprima tremò; poi, rinfrancato, parlava così al suo cuore per farsi coraggio:


grave egli è amore,
Implacabile il mar: l'acqua è del mare,
Me interno foco d'amor arde. Il foco
Prenditi pure, o cor, nè la diffusa
Onda temer. Vien meco a' dolci amplessi.

🖋 Parafrasi

"Amore è gravoso, il mare è implacabile: ma il mare è fatto d'acqua, mentre dentro di me arde un fuoco d'amore. Coraggio, cuore mio, sopporta il fuoco, non temere l'onda estesa! Vieni con me ai dolci abbracci".


Del mar ti cale? Ignori che dall'onde
Nasce Ciprigna, e che Ciprigna impera
E al mare e a' nostri affanni? – In così dire
Da le amabili sue membra le vesti
Ei con ambo le man' tolse, sul capo
Strette le avvinse, e balzando dal lido
Avventurossi al mare, e a la splendente
Lucerna s'affrettava ei rematore,
Ei carco, ei nave, che di se ne gia.

🖋 Parafrasi

"Perché ti preoccupi del mare? Non sai che Ciprigna (Venere) nacque proprio dalle onde, e che lei domina sia il mare sia i nostri amori?". Così parlando, Leandro si tolse le vesti dalle amabili membra, le strinse attorno al capo, e balzò dalla riva, lanciandosi nel mare: era insieme rematore, carico e nave, muovendosi solo grazie a se stesso, diretto verso la lucerna splendente.

🔎 Note testuali

"ei rematore, / ei carco, ei nave":

📌 L'eroismo amoroso e la figura dell'amante tragico

Un frammento in apparenza semplice racchiude una delle più alte rappresentazioni dell'amore come atto eroico e totalizzante:

Avventurossi al mare, e a la splendente
Lucerna s'affrettava ei rematore,
Ei carco, ei nave...

Con questa trinità fulminante – rematore, carico, nave – Leandro si configura non più soltanto come amante, ma come eroe epico della passione, incarnazione integrale del desiderio e del destino. È solo nel buio del mare, senza strumenti né sostegni, spinto unicamente dalla forza dell'amore. In lui l'amore non è sentimento, ma azione totale, gesto incarnato che annulla ogni distinzione tra mezzo e fine, corpo e volontà, desiderio e rischio. L'eroismo amoroso si misura qui non con la vittoria, ma con la disponibilità al sacrificio, con la traversata solitaria verso la morte.

Leandro è sovrapponibile a un Ulisse notturno, ma privo del sostegno divino: ha una sola guida – la lucerna accesa da Ero, fragile segnale nella tempesta. Ma è proprio questa fragilità a dare grandezza al gesto. L'eroismo amoroso si nutre infatti di inutilità sublime: Leandro non compie un'impresa gloriosa per la città o per la stirpe, ma si getta nel mare per amore, senza pubblico né onore, in un viaggio che culminerà nella morte. È l'eroe del pathos, non del kratos.

Nella letteratura occidentale, questa figura dell'amante tragico si rinnova continuamente: da Pìramo e Tisbe, vittime dell'equivoco e del destino, a Paolo e Francesca, travolti dalla passione che "vinse loro il cuore". In ciascuno di essi, l'amore non è mai solo un incontro di anime o di corpi, ma un passaggio verso la morte, un'affermazione di sé che coincide con la propria distruzione. L'amante tragico è sempre troppo umano, nel senso più alto: consapevole del proprio limite, eppure disposto a superarlo, per abbracciare ciò che è irriducibile, irripetibile, assoluto.

La formula poetica di Museo – "ei rematore, ei carco, ei nave" – diventa così emblema dell'amore estremo, metafora perfetta di chi si fa viaggio e viaggiatore, peso e veicolo, soggetto e offerta. In un mondo, il nostro, che celebra l'efficienza, l'eroe amoroso è figura obsoleta e necessaria: ci ricorda che l'amore autentico non si misura in utili o in risultati, ma in slancio gratuito e tragico.

👉  Pìramo e Tisbe: la crepa del destino

A Babilonia, nella terra dove il linguaggio degli uomini si confuse e le torri sfidarono il cielo, due giovani si amano: Pìramo e Tisbe, i più belli fra i figli dei loro rispettivi casati. Ma come spesso accade negli antichi racconti – e, forse, anche nei cuori moderni – il loro amore è proibito. Le famiglie, nemiche per ragioni che il tempo ha reso remote e ottuse, vietano ogni contatto.John William Waterhouse, Thisbe (1909)

Eppure Pìramo e Tisbe trovano una fessura, una crepa nel muro che separa le loro case, e lì si sussurrano parole d'amore. Ogni giorno, attraverso quella sottilissima fenditura, le dita si sfiorano, le labbra si avvicinano, i sospiri si intrecciano. È un amore che nasce nel silenzio, cresce in segreto e si nutre del desiderio di un abbraccio che ancora non è destinato a compiersi.

Una notte decidono di fuggire insieme. Si incontreranno fuori della città, presso la tomba di Nino, accanto a un gelso dai frutti candidi, luogo nascosto e solenne. Tisbe arriva per prima. Ma ecco che giunge un leone, con le fauci ancora insanguinate per la preda appena ghermita. Tisbe fugge spaventata, e nel correre perde il velo, che l'animale dilania con le zampe insanguinate prima di allontanarsi.

Quando Pìramo giunge sul luogo dell'incontro, vede quel velo macchiato di sangue. L'orrore lo assale. Non c'è bisogno di parole: immagina la scena, si convince che la sua amata sia stata sbranata dal leone. Lo strazio lo travolge, la colpa lo divora. Lui avrebbe dovuto proteggerla. Lui, solo lui, ha causato questa fine. E così, senza esitazione, estrae la spada e si trafigge il fianco. Il sangue scorre a fiotti, e i frutti del gelso – finora candidi – si tingono di rosso scuro, segnati dal dolore.

Ma Pìramo non è ancor morto. È disteso al suolo, il corpo già freddo, gli occhi appesantiti dal buio che avanza, quando Tisbe ritorna. Lei, nascostasi poco lontano, torna sul luogo dell'incontro e vede l'amato riverso nel proprio sangue. Si avvicina. Lo chiama. Lo implora. Lui apre gli occhi per un'ultima volta. La vede. E, in quello sguardo, in quell'estremo istante, si ricongiungono.

Poi lui li richiude. Per sempre.

Tisbe è impietrita. Ma è troppo tardi. Quella visione reciproca ha avuto luogo. Lei l'ha visto morire. Lui gli è spirato tra le braccia.

Non le resta che seguirlo. Afferra la spada, ancora calda del sangue dell'amato, e invoca gli dèi. Supplica che la sua morte non venga disprezzata, che le loro ceneri siano raccolte in un'unica urna, e che il gelso – testimone silente della tragedia – conservi per sempre i suoi frutti scuri, a memoria dell'amore e della sciagura.

Dopodiché si trafigge.

Pìramo e Tisbe muoiono così, insieme ma a distanza di un respiro, nel cuore della notte babilonese, presso un albero che resterà per sempre rosso di sangue e di desiderio. La loro storia attraversa il tempo non per la gioia del lieto fine, ma per la potenza dolorosa del rimpianto. Sono amanti che non hanno potuto vivere l'amore, ma che nella morte si sono uniti in eterno, consacrati dalla parola poetica che, da Ovidio in poi, li ha resi simboli imperituri della fedeltà tragica e della passione più pura.

La loro vicenda continua a vibrare nei cuori degli umani come un sussurro oltre il muro: fragile, commovente, irrevocabile.


Ero intanto dal sommo della torre
D'onde il lume sporgea, da' crudi soffj
La lucerna copria spesso col manto
Da quella parte onde spirava il vento,
Finché Leandro affaticato al lido
Giunse di Sesto, che le navi accoglie,
E alla sua torre il trasse.

🖋 Parafrasi

Intanto Ero, dalla cima della torre da cui sporgeva la lucerna, copriva spesso la luce con il mantello per proteggerla dai venti impetuosi che spiravano. Finché Leandro, stanco, giunse sulla riva di Sesto, il porto che accoglie le navi, e si diresse verso la torre dove si trovava Ero.


Taciturna
Entro le porte l'ansante marito
Abbracciando, che ancor l'onda spumosa
Dal crin stillava, seco a' verginali
Recessi lo condusse, ove le nozze
S'apprestavano.

🖋 Parafrasi

Senza dire parola, Ero abbracciò l'affannato amante, dal cui capo colava ancora l'acqua spumosa del mare, e lo condusse con sé nei ritiri verginali dove si preparavano le loro nozze segrete.


Tutta ella gli asterse
La pelle, e di fragrante olio di rose
Il corpo ungendo, il grave odor n'estinse
Del mare, ed allo sposo che anelante
Era ancor, sovra ben soffici letti
Tutta si diede, a lui dolce parlando:

🖋 Parafrasi

Ella gli asciugò completamente la pelle e, ungendolo con fragrante olio di rose, eliminò il forte odore del mare; poi, allo sposo che ancora ansimava, si concesse interamente sopra morbidi letti, rivolgendogli dolci parole:


Molte pene hai sofferte, sposo, ch'altro
Sposo non mai soffrì; molto hai sofferto.
Troppo di pescïoso odor di mare,
Troppo n'avesti di sals'onda. Or via
I tuoi sudori nel mio sen deponi.
Ella cosi parlò. La zona ei tosto
Le disciolse, e fra loro di benigna
Venere usâr le leggi.

🖋 Parafrasi

"Hai sopportato molte pene, o sposo, che nessun altro mai patì; hai molto sofferto. Troppo hai respirato l'odore del mare e dell'onda salmastra. Ora, vieni: deposita i tuoi sudori nel mio seno". Così parlò Ero. Leandro subito le sciolse la cintura, e i due, sotto la benevola protezione di Venere, consumarono l'unione amorosa.

🔎 Note testuali

"La zona ei tosto / le disciolse, e fra loro di benigna / Venere usâr le leggi".

👉 Il corpo amato: cinque luoghi poetici dell'eros nella classicità

1. Il collo

"Collo baciando alla fanciulla"
(Museo Grammatico, Ero e Leandro)

Il collo è parte sensuale per eccellenza nella poesia erotica greca. Già in Saffo (fr. 94 Voigt) la vicinanza fisica è segnalata da gesti come l'abbraccio e il bacio sul collo. Anche in Teocrito (Idillio II), le invocazioni erotiche includono un'attenzione ai punti del corpo che racchiudono dolcezza e desiderio. Il collo, in particolare, è spesso simbolo di grazia, di bellezza femminile non ostentata, ma evocata.

2. Gli occhi

Ovidio riconosce negli occhi la sede prima dell'innamoramento. Il loro potere è duplice: accendono e feriscono. Catullo, nei Carmina, li associa spesso allo sguardo della sua Lesbia, capace di pietà e crudele insieme. In Saffo (fr. 31 Voigt), lo sguardo dell'amata è più forte della voce:

"…e subito la lingua si spezza, / un fuoco sottile affiora sotto la pelle, / nulla più vedo con gli occhi…"

3. Il seno

Il petto o seno (mollia pectora) è spesso descritto nella letteratura latina con aggettivi che ne esaltano la tenerezza, la femminilità, la vulnerabilità. In Properzio (Elegie, II, 15) il corpo di Cinzia è descritto con un crescendo di desideri, e il seno è punto nevralgico di contatto erotico e affettivo ("saranno pochi i tuoi baci, se anche me li dai tutti"). Anche nell'epigramma greco, il seno è evocato come superficie d'amore, terreno di gioco e nostalgia.

4. Le mani

Le mani sono simbolo di desiderio e insieme di giuramento d'amore. Nella lirica latina elegiaca, le mani che si uniscono ("iunctis manibus") sono pegno di fedeltà e promessa erotica. Anche nella lirica greca arcaica, da Anacreonte a Saffo, le mani guidano il contatto: carezza, stretta, invito.

5. Il piede

La poesia antica, che celebrava la bellezza in ogni suo dettaglio, non trascurava il piede, spesso descritto come "minuto", "bianco", "veloce". In Catullo, i piedi della sposa sono ornamento sacro e sensuale al tempo stesso, danzanti e lievi.


Qui eran nozze
Ma senza danze, ed erano qui letti
Ma d'inni privi, chè verun cantore
Non invocò la pronuba Giunone;
Splendor di tede a' nuziali letti
Non rifulse, nè alcuno in agil danza
Saltò, nè il padre, nè la veneranda
Madre cantò Imeneo; ma il letto steso
Nell'ore in che si compiono le nozze,
Fu dal silenzio il talamo costrutto.

🖋 Parafrasi

Queste erano vere nozze, ma senza danze; e i letti, pur essendoci, erano privi di inni, poiché nessun cantore invocò Giunone, dèa protettrice delle nozze. Nessuna luce di fiaccole brillò sui giacigli nuziali, né alcuno danzò con agili passi, né il padre né la veneranda madre intonarono il canto di Imeneo. Il letto, approntato per le nozze, fu ornato solo dal silenzio: fu il silenzio a costruire il loro talamo nuziale.

🔎 Note testuali

"pronuba Giunone": epiteto di Giunone e delle altre dèe protettrici delle nozze regolari (pronuba: colei che assisteva la sposa durante la cerimonia nuziale).

✔ tede: fiaccole di rami resinosi usate nelle cerimonie nuziali e nei riti sacri.

✔ Imeneo: dio o canto che accompagna ufficialmente le nozze.

✔ talamo: camera con letto nuziale.

👉 Il rito nuziale nell'antica Grecia

Il matrimonio greco antico era un evento altamente ritualizzato, articolato in tre fasi:

Durante il gamos, si invocava Giunone (Hera), protettrice del matrimonio legittimo e dell'armonia coniugale. Il canto di Imeneo (nome del dio delle nozze, ma anche del canto stesso) accompagnava la cerimonia come sigillo gioioso e propizio, intonato dai parenti e spesso dal padre e dalla madre della sposa.

Le fiaccole nuziali (tede) rappresentavano la luce dell'unione, la sacralità del vincolo: si portavano nella processione e si accendevano nel talamo, simbolo di continuità domestica e rigenerazione della stirpe.

In questo passo, tutto ciò è negato.

La coppia ha il letto, ma non ha il canto; ha l'amore, ma non il rito. Museo, attraverso un catalogo di negazioni, mostra una cerimonia d'amore privata di ogni riconoscimento sacro e sociale. Nessuna danza, nessun parente, nessuna invocazione alla dea, solo il silenzio.

Il verso finale – "fu dal silenzio il talamo costrutto" – è una delle più potenti immagini elegiache della poesia antica: il talamo c'è, ma è tomba nuziale, amplesso ultimo e definitivo, matrimonio senza domani.


L'ombra ornava gli sposi, e quelle nozze
Eran lunge dai canti d'Imeneo.
Quelle nozze adornava sol la notte;
Nè in manifesti letti unqua l'aurora
Scorse Leandro.

🖋 Parafrasi

L'ombra era l'unico ornamento degli sposi, e quelle nozze erano lontane dai solenni canti di Imeneo. Solo la notte adornava quelle nozze; mai l'aurora sorprese Leandro in un letto alla luce del giorno.


Al popolo d'Abido
Nuotava ei quindi ver l'opposta riva,
Non ancor sazio, le notturne nozze
Spirante ancor. Ma colla lunga veste
Ero copriasi a' genitor': di giorno
Vergin, ma donna era la notte; ed ambo
Spesso bramâr che il dì gisse all'occaso.

🖋 Parafrasi

Leandro quindi nuotava di nuovo verso il popolo di Abido, verso la riva opposta, non ancora sazio, respirando ancora il desiderio delle nozze notturne. Ero, di giorno, si copriva con una lunga veste davanti ai genitori: di giorno si mostrava vergine, ma di notte era donna; ed entrambi spesso desideravano che il giorno calasse in fretta per potersi ricongiungere.


Così celando d'amistà la forza,
Di Venere furtiva ambo fra loro
Godean. Ma visser poco, e poco insieme
Fruir di nozze sì vaganti.

🖋 Parafrasi

Così, dissimulando la forza del loro amore sotto le sembianze dell'amicizia, i due amanti godevano, in segreto, dei doni di Venere. Ma vissero poco, e per poco tempo poterono godere delle loro nozze fugaci.


Alfine
Giunse del verno la stagion brinata
Che orrendi innalza vorticosi flutti,
E rinforzando gli ïemali venti
Il mobil fondo e le bagnate sedi
Sbattean dell'onde, il mar tutto sferzando
Co' turbini; e il nocchier, sul doppio lido
Tratta la negra nave, il mar fuggia.

🖋 Parafrasi

Alla fine sopraggiunse l'inverno gelido, che solleva orribili flutti vorticosi, e, con il rinforzarsi dei venti invernali, sbatteva il fondo mobile del mare e le sue sponde bagnate, sferzando tutto il mare con i suoi turbini. I marinai, tirando a riva le nere navi su entrambe le sponde, fuggivano il mare in tempesta.

🔎 Note testuali

"negra nave": espressione epica per designare le navi, spesso scure a causa della pece protettiva.

👉 "Negra nave": significato e simbolismo

La formula "negra nave", che compare spesso nei poemi epici arcaici – in particolare in Omero – non è semplice designazione cromatica. Indica sì, le imbarcazioni da guerra o da viaggio lunghe e sottili, i cui scafi erano resi scuri da una copertura di pece che serviva a impermeabilizzarle e a proteggere il legno dalla salsedine e dai parassiti marini.

Ma in Omero, le νῆες μέλαιναι (nées mélainai) sono anche luoghi di partenza e di ritorno, strumenti del fato, contenitori mobili di eroi e messaggeri degli dèi. La "nave nera" evoca funzione rituale e morte, perché attraverso il mare si va alla guerra, all'esilio o alla tomba.

Nel poemetto, che si muove tra l'elegia e l'epica innamorata, la presenza della "negra nave" – anche solo come eco o allusione – colloca la vicenda su un piano mitico: ogni viaggio, ogni attraversamento, anche quello di Leandro nel suo nuoto notturno, si carica di senso epico e oscuro. La nave, pur non essendo protagonista dell'azione, è simbolo della distanza, della separazione, dell'irruzione del mare come spazio pericoloso e sacro.

In questo contesto, l'aggettivo "negra" porta con sé una stratificazione semantica che va dal tecnico al poetico:

Ogni richiamo al lessico marinaro antico potenzia l'intensità mitopoietica del testo. La "negra nave" diventa così non solo espressione, ma ombra lunga della tragedia che sta per compiersi.


Ma te di procellose onde la tema
Non rattenea, d'ardito cor Leandro,
Chè il nunzio de la torre, il consueto
Lume sporgendo d'imenei, l'irata
Onda sprezzar ti fece: empio, crudele!

🖋 Parafrasi

Ma a te, Leandro dal cuore ardito, non tratteneva la paura delle onde tempestose, poiché la luce consueta, che dalla torre annunciava gli incontri amorosi, ti spinse a sfidare l'onda furiosa. Ah, empio, crudele destino!


Ben dovea l'infelice Ero nel verno
Starne senza Leandro, e de' suoi letti
Non più accender la stella, che sì brevi
Giorni vivea; ma la forzava Amore
E il Fato; e lusingata omai, la face
Non più d'Amor, ma delle Parche espose.

🖋 Parafrasi

Sarebbe stato giusto che l'infelice Ero, durante l'inverno, rinunciasse a vedere Leandro e non accendesse più la stella dei loro letti amorosi, vista la brevità dei suoi giorni futuri. Ma Amore e il Fato la costrinsero, ed ella, ingannata, espose la torcia non più per amore, ma per volontà delle Parche (le dèe della morte).

🔎 Note testuali

Parche: le tre dèe del destino (Cloto, Lachesi, Atropo), figlie di Zeus e di Temi (o della Notte) che regolano la vita e la morte.

👉 Le Parche: figlie della Notte e custodi del destino

Nel cuore del pensiero mitico greco-romano, le Parche – dette anche Fatae in alcune tradizioni latine – rappresentano la personificazione del destino ineluttabile che regola la nascita, la vita e la morte di ogni essere vivente. Corrispondenti alle Moire greche, esse incarnano il principio di necessità (anankē), superiore persino al volere degli dèi olimpici. Secondo la tradizione più antica, trasmessa da Esiodo nella Teogonia, le Moire (e dunque, per traslazione, le Parche) sono figlie della Notte (Nyx), divinità primordiale che genera anche la Morte, il Sonno e il Destino stesso, configurandole come forze arcaiche e impersonali. Altre versioni, come quella riportata da Platone e da autori posteri, le vogliono figlie di Zeus e Temi, unendo così la sovranità divina alla giustizia cosmica.

Le tre Parche sono:

Il termine Fatae (plurale di Fata) deriva dal latino fatum, "ciò che è detto", e sottolinea l'aspetto oracolare e irrevocabile del destino pronunciato. Le Fatae compaiono soprattutto nella tarda latinità e nel folclore medievale, dove vengono a volte confuse con figure benefiche o malefiche che presiedono alla nascita dei bambini, trasmettendo il concetto antico in forme nuove, legate al mondo magico e fiabesco. Il loro compito, silenzioso e inesorabile, è puramente esecutivo: esse non giudicano, non governano, ma svolgono la funzione di mantenere l'equilibrio del cosmo attraverso la tessitura del tempo e della vita – eseguendo una legge più antica degli dèi stessi, forse scritta nella Necessità, forse nel silenzio stesso del mondo. Anche Zeus, il padre degli dèi, è soggetto al loro potere: segno di come il logos del mondo mitico riconoscesse nel destino una realtà superiore a ogni arbitrio.

Dalle opere di Esiodo e Pindaro a quelle di Virgilio e Ovidio, fino a Dante e alla tradizione cristiana medievale, le Parche si tramandano come simboli profondi della condizione umana: nate dalla Notte, operano nel silenzio, tessendo la vita e recidendola senza pietà, ma con ordine.

"Correte, fusi, correte, guidando la trama" (Currite ducentes subtegmina, currite, fusi) è il canto reiterato delle Parche nel Carme 64 di Catullo.


Notte era, allor che in maggior rabbia fremono
I venti che brumal soffio saettano
E aggruppati sul lido al mar si cacciano.
Allor Leandro cui traea la conscia
Speme della consorte, pel sonante
Dorso del mar spigneasi.

🖋 Parafrasi

Era notte, proprio quando i venti d'inverno infuriano con maggiore rabbia e, radunandosi sulla riva, si scagliano contro il mare. Allora Leandro, trascinato dalla speranza di rivedere la sua amata, si spingeva sul dorso sonante del mare.

🔎 Note testuali

"brumal soffio": il gelido soffio dei venti invernali.


Già coll'onda
L'onda si ravvolgea, s'accavallavano
L'acque ed al cielo si mesceano i flutti.
E d'ogn'intorno era fragor, de' venti
Al contrastare: a Zeffiro soffiava
Euro incontro, volgea fiere minacce
A Borea Noto, e in grave suon muggìa
L'onda sonante.

🖋 Parafrasi

Le onde si avvolgevano su se stesse, si accumulavano le une alle altre, e i flutti sembravano mescolarsi con il cielo. Da ogni parte risuonavano fragori: i venti si affrontavano fra loro; Euro soffiava contro Zefiro, Noto lanciava minacce a Borea, e l'onda rumorosa mugghiava con suono grave.

🔎 Note testuali

Euro, Zeffiro, Noto, Borea: nomi poetici dei venti: Euro (vento d'oriente); Zeffiro (occidente, mite); Noto (sud, caldo); Borea (nord, freddo).

✔ In questo brano, i venti non si alternano: si scontrano. Il loro non è un ciclo, è un conflitto. Non c'è armonia meteorologica: c'è dramma cosmico. Sono forze che combattono tra loro come dèi gelosi, come fratelli rivali. Questo conferisce alla tempesta una dimensione mitica, non naturale ma sacrale, degna di chi naviga o ama sotto il cielo degli eroi. Nei versi: "A Zeffiro soffiava Euro incontro, volgea fiere minacce / A Borea Noto", c'è un duello incrociato tra titani invisibili, uno scontro che riecheggia le grandi scene omeriche in cui il mondo fisico diventa teatro della volontà divina.

👉 Forze della natura e volontà divina

I venti, nella mitologia e nella letteratura greca (e non solo), non sono semplici fenomeni atmosferici, ma entità vive, agenti divini, forze cosmiche dotate di volontà, potere e temperamento. Il brano li evoca con una forza arcaica, epica, restituendo quella visione antica in cui la natura non obbedisce alle leggi fisiche, ma agli dèi – o meglio: è essa stessa divina.

I venti sono personificazioni potenti e spesso imprevedibili, e nell'immaginario greco e latino non si limitano a soffiare: essi scatenano guerre, distruggono flotte, salvano eroi, ubbidiscono agli dèi, si ribellano agli uomini.

Nel mito e nella poesia:


Il misero Leandro
Tra la rabbia de' vortici, preghiere
Spesso a Vener' marina ed al medesmo
Re dell'onde porgea, nè lasciò a Borea
Di rammentar l'Attica sposa.

🖋 Parafrasi

Il povero Leandro, in mezzo alla furia dei vortici, rivolse spesso preghiere a Venere marina e al re del mare (Poseidone), e non dimenticò di ricordare a Borea l'amata sposa Attica (Orizia, che Borea aveva rapito).

🔎 Note testuali

"Il misero Leandro": il giovane amante, colto dalla tempesta mentre attraversa a nuoto l'Ellesponto per raggiungere Ero, è definito "misero" (in senso forte: miserevole, degno di compassione) per la sua situazione disperata.

"la rabbia de' vortici": il vento e la bufera spezzano l'unione amorosa: elemento simbolico potente, l'ostilità della natura come metafora del destino avverso. L'uso di "rabbia" attribuisce una volontà maligna agli elementi naturali, come spesso accade nella poesia antica.

✔ "preghiere / spesso a Vener' marina...": Leandro, nel suo pericolo, invoca:

"nè lasciò a Borea / di rammentar l'Attica sposa": passo denso di allusione mitologica:

📌 Questo breve passo è uno dei più raffinati del poemetto. Museo, con poche linee, sovrappone due immagini – il giovane che sfida il mare e il dio rapitore –, legando eros e thanatos (amore e morte), elemento centrale in tutta la tradizione del mito di Ero e Leandro. La citazione di Orizia non è casuale: evoca sia la forza irresistibile della passione, sia la violenza della natura e del destino.


Alcuno
Nol soccorse, nè Amor vinse il destino.
Egli dall'urto oppresso de' raccolti
Flutti, che incontro gli si feano, intorno
Era sbattuto; ogni vigore a' piedi
Mancôgli, e delle irrequïete palme
Cessò la forza.

🖋 Parafrasi

Nessuno lo soccorse, e nemmeno l'amore poté vincere il destino. Egli, schiacciato dall'urto delle onde che si ammucchiavano contro di lui, veniva sbattuto da ogni parte. Gli venne meno ogni forza nei piedi e nelle mani, ormai stanche di lottare contro il mare.


Di per se molt'acqua
Scorreagli in gola, e mal suo pro bevea
La salsa onda. Ma già vento nemico
La lucerna infedel estinse, e insieme
E la vita e gli amor' dell'infelice
Leandro, che cotanto avea sofferto.

🖋 Parafrasi

L'acqua gli entrava nella gola, e, contro la sua volontà, beveva l'amara onda salata. Ma il vento avverso spense la lucerna infedele, e con essa si spensero anche la vita e gli amori del povero Leandro, che tanto aveva sofferto.

🔎 Note testuali

"salsa onda": onda salata, il mare.

Morte di Leandro: Leandro annega senza la guida luminosa. L'annegamento è narrato con pietas estrema, come una dissoluzione amorosa più che come morte fisica.


Mentr' ei tardava ancor, con vigil'occhio
Ero ondeggiava in tristi cure; sorse
L'Aurora, nè lo sposo Ero scorgea.

🖋 Parafrasi

Mentre Leandro tardava, Ero, con occhio vigile, si agitava tra angosciose preoccupazioni; sorse l'Aurora, ma Ero non vedeva arrivare il suo sposo.


Del mar sul dorso spazïoso il guardo
Volse dovunque, se scorgesse mai
Vagar lo sposo, poiché spenta s'era
La lucerna.

🖋 Parafrasi

Volse lo sguardo su tutta la vasta distesa del mare, cercando ovunque se per caso vedesse il suo sposo vagare, dopo che la lucerna si era spenta.


Ma come estinto il vide
E lacerato dagli scogli al piede
De la torre, squarciandosi dal petto
La ben tessuta veste, capovolta
Cadde, stridendo, dall'eccelsa torre.

🖋 Parafrasi

Ma, vedendolo ormai morto e sfigurato dagli scogli ai piedi della torre, Ero si strappò dal petto la veste ben tessuta e, lanciando un grido, si gettò dall'alta torre.

🔎 Note testuali

"squarciandosi dal petto / la ben tessuta veste": gesto rituale di disperazione, tradizionale nel lutto antico. La "ben tessuta veste" indica non solo un tessuto di pregio, ma anche la condizione sacra e rituale di Ero, sacerdotessa di Afrodite. Il gesto di strapparsela dal petto è tipico della disperazione funebre nel mondo antico: è un atto di lutto e insieme di rottura, come se in quel gesto Ero rinunciasse alla sua veste sacra per abbandonarsi alla morte come donna, e non più come ministra della dèa.

"capovolta / cadde": descrive il suicidio di Ero, che si getta dalla torre verso il corpo di Leandro. La caduta di Ero dalla torre è gesto tipico dell'amore estremo nell'antichità e nel Medioevo: mors amoris (morte d'amore). Cfr. Didone nell'Eneide IV di Virgilio e Saffo nel mito letterario.

👉 "Ben tessuta veste": significato e simbolismo

L'espressione richiama il lessico omerico e arcaico: le vesti "ben tessute" (in greco εὖ ὑφασμένην, eù huphásmenēn) sono sempre raffinate, preziose, spesso dono o patrimonio. Ma nel caso di Ero – sacerdotessa di Afrodite – il significato si fa ancora più profondo.

✔ Funzione religiosa:

Come sacerdotessa, Ero indossa una veste rituale, probabilmente ornata, chiara, ben tessuta a mano, simbolo della sua purezza, della sua appartenenza al culto e del suo legame con la dèa dell'amore.

✔ Simbolo della condizione femminile:

Il gesto di strapparsi la veste dal petto ha un valore rituale e funebre: è un atto di lutto estremo, di svelamento della propria condizione umana e vulnerabile, ma anche di abbandono della funzione sacra. In quel gesto, Ero rinuncia a essere ciò che era – sacerdotessa, vergine, promessa ad Afrodite – per morire come donna innamorata.

✔ Pregio del tessuto:

L'aggettivo "ben tessuta" (καλοϋφής nei testi greci) può indicare un tessuto di alto valore, lavorato a telaio con cura, forse ornato di simboli o colori liturgici (bianchi, porpora, azzurri). È la veste di chi appartiene a un santuario, non al mondo comune.


Così morìo sovra l'estinto sposo
Ero, e nel fato estremo anco s'uniro.

🖋 Parafrasi

Così Ero morì accanto al corpo del suo sposo morto, e anche nel destino finale i due amanti si unirono.

🔎 Note testuali

Conclusione – Eterna memoria:

👉 Il rimpianto immortale e la glorificazione poetica degli amanti

La morte congiunta di Ero e Leandro, che suggella la loro unione post mortem, colloca i due amanti nella sfera del rimpianto immortale, una categoria che la tradizione elegiaca e amorosa ha saputo trasformare in uno dei suoi topos più profondi e persistenti. In questa linea, il dolore non è solo espressione di perdita, ma diventa forma privilegiata di memoria, sublimata dalla poesia.

Nel corpus elegiaco antico, da Properzio a Tibullo, l'amore infelice, segnato dalla distanza, dal tradimento o dalla morte, assume una valenza assoluta: esso si imprime nella parola poetica come esperienza totalizzante, al di là del tempo. La morte stessa, lungi dall'essere mera fine, diventa consacrazione, passaggio a una forma superiore di esistenza, proprio attraverso la forza del canto.

Così anche Ero e Leandro, nella loro fine tragica, vengono trasfigurati dalla parola poetica in simboli eterni dell'amore assoluto e perduto. Il loro destino non è soltanto quello dei personaggi narrati, ma quello degli amanti esemplari, scolpiti nell'immaginario collettivo come modelli di fedeltà estrema. In questo senso, la poesia non si limita a raccontare la loro vicenda: la glorifica, cioè la eleva, trasformando il dolore e la morte in materia poetica nobile e sacra.

In definitiva, il rimpianto immortale non è solo un'emozione, ma una funzione culturale della poesia amorosa ed elegiaca: essa custodisce la memoria degli amanti, ne tramanda l'intensità, e li restituisce al lettore non come figure perdute, ma come icone emotive e simboliche. Morendo insieme, Ero e Leandro non scompaiono: entrano nel mito, e il mito li conserva come epifania della passione assoluta.

Come visto, Museo Grammatico, nella sua raffinata semplicità, ci offre:

L'epillio si chiude nel silenzio: la lucerna è spenta, il mare si placa, il canto resta.

Museo, epilogo

§ 6. – Eredità e fortuna

Il mito di Ero e Leandro era già noto nella letteratura latina (Ovidio, Heroides XVIII e XIX; Marziale, Epigrammi) e nella tradizione epigrammatica greca. Museo lo trasforma in racconto poetico completo, divenendo punto di riferimento per le rielaborazioni successive: da Marlowe (1598) a Byron (1810), sino a Boito in età postromantica.

Rispetto a questi, Museo offre la versione più pura, più composta e più luminosa, non priva di malinconia, ma profondamente classica nel tono. È un poema sull'amore come forma di resistenza, un piccolo capolavoro di equilibrio tra eros e pathos; un'epopea della tenerezza e della disperazione, un canto dolcissimo e straziante dell'amore giovane, della sfida alla natura e del sacrificio estremo alla passione.

📌 Il mito di Ero e Leandro da Museo Grammatico a Ovidio, Marlowe e Byron

Il mito tragico di Ero e Leandro, eternato con toccante lirismo da Museo Grammatico in epoca tardo-antica, si è tramandato nel tempo come una delle storie più suggestive e commoventi dell'immaginario amoroso occidentale.
La sua forza simbolica – l'amore che sfida il mare, la notte e il fato – ha ispirato in epoche successive autori come Ovidio, Christopher Marlowe e Lord Byron, ognuno dei quali ha reinterpretato la leggenda secondo i parametri poetici e culturali della propria epoca.


Il poemetto di Museo Grammatico: lirismo elegiaco e destino

Nel poemetto di Museo Grammatico, l'amore tra Ero e Leandro si tinge di una dolcezza struggente, destinata sin dall'inizio a sfociare nella tragedia.
La narrazione, breve e intensa, è costruita su un raffinato tessuto di immagini: la lucerna come guida amorosa e simbolo del destino, il mare come avversario invincibile, la notte come complice e poi come testimone della morte.
Museo non canta un'impresa eroica, ma la celebrazione malinconica di una passione totale, resa fragile di fronte ai capricci della natura e al volere delle Parche.


Ovidio: introspezione elegiaca

Nel corpus delle Heroides (XVIII, XIX), Ovidio rielabora il mito attraverso una duplice epistola: Ero e Leandro si parlano da lontano, colmi di desiderio, ansia, paura.
La prospettiva si sposta dall'azione all'interiorità: l'eroismo cede il passo alla psicologia amorosa.
Ovidio accentua la sospensione, il timore, il languore dell'attesa, trasformando l'impresa marinaresca di Leandro in un dramma del cuore, tutto racchiuso nella distanza e nel timore della perdita.
L'elegia ovidiana non racconta la morte: la tragedia è ancora un'eventualità, non un fatto compiuto.


Marlowe: vitalismo e sensualità

Alla fine del Cinquecento, Christopher Marlowe riprende il mito in un poemetto incompiuto, Hero and Leander, rielaborandolo con spirito rinascimentale.
Nel suo racconto, l'amore non è patimento, ma esuberanza vitale: Ero e Leandro sono spinti da un desiderio naturale, irresistibile, che li rende vicini più agli dèi pagani che agli amanti romantici.
Il tono è spesso ironico, brillante, talvolta sensuale fino alla licenza.
La tragedia non ha spazio: l'opera si interrompe prima della morte di Leandro, e il mito si trasforma in una celebrazione della giovinezza e dei piaceri amorosi.


Byron: il mito romantico della sfida

Nel primo Ottocento, Lord Byron recupera il mito, soprattutto in The Bride of Abydos e in numerosi riferimenti autobiografici.
Per Byron, Ero e Leandro diventano il simbolo perfetto della nostalgia romantica: l'amore, purissimo, è destinato a scontrarsi contro forze avverse e superiori.
Nel suo viaggio in Grecia, Byron si cimenta personalmente nella traversata dell'Ellesponto, quasi a voler vivere il mito: un gesto che fonde letteratura e vita, ideale romantico per eccellenza.
Il tono byroniano è venato di malinconia eroica: l'amore è sfida titanica, ma anche inevitabile sconfitta.


L'eredità di Ero e Leandro attraversa i secoli modificandosi profondamente:

Ogni autore, pur restando fedele al nucleo tragico della leggenda, vi proietta la propria sensibilità, arricchendo il mito di nuove risonanze: esso diventa così uno specchio delle epoche e dei cuori che lo hanno riscoperto.

§ 7. – Boito: il proemio incantato

Ci piace concludere questo nostro lavoro con i versi di Arrigo Boito, proemio elegiaco alla tragedia lirica in tre atti, musicata da Giovanni Bottesini (Roux e Favale, 1879), proprio per quanto essi riescono ad esaltare in maniera insuperabile la bellezza e la drammaticità della storia d'amore che abbiamo raccontato.

ERO E LEANDRO
di Arrigo Boito
(vv. 1-8)
Canto la storia di Leandro e d'Ero,
Su cui son tanti secoli passati,
Amorosa così, che nel pensiero
Ritornerà de' tempi ancor non nati,
Eterna come il duol, come il mistero
D'amore che ne fa mesti e beati,
Fiore di poësia, tenero fiore
Che, irrorato di lagrime, non muore.
(vv. 9-16)
Canto pei cuori innamorati, canto
Per gli occhi vaghi e per le guancie smorte,
Per quei ch' hanno sorriso e ch' hanno pianto
In un'ora di vita ardente e forte.
L'antico amor ch'io narro fu cotanto
Che sfidò il mare, i fulmini e la morte.
Udite il caso lagrimoso e fero.
Canto la storia di Leandro e d'Ero.

🔎 Note testuali

"Canto": formula epica (cfr. "Arma virumque cano"), ma qui declinata nella tonalità elegiaca. "fiore di poesia": metafora romantica per eccellenza; rimanda al concetto di bellezza destinata alla rovina, ma eternata dal canto. "irrorato di lagrime": immagine visiva forte, che fonde tenerezza e pathos. "occhi vaghi": "vaghi" nel senso antico di pieni di desiderio, non incerti. "guancie smorte": pallide per turbamento amoroso (luogo comune della lirica amorosa e petrarchesca). "antico amor… sfidò il mare": riferimento al passaggio notturno a nuoto che Leandro compiva per raggiungere Ero (la quale lo guidava con una fiaccola accesa). "caso lagrimoso e fero": espressione quasi giacoponica, tra pathos e dramma.

🖋 Parafrasi

Canto la storia di Leandro e di Ero, storia d’amore tanto antica, carezzata dai secoli come i veli di polvere sul marmo, tanto viva da redire, per incanto o per ferita, nel cuore di tempi ancora da venire. È storia eterna, il dolore e l’arcano dell’amore che ci innalza e ci consuma, che ci allieta e ci lacera in uno, dolce come fiore di sogno, fiore delicato, bagnato di pianto e che mai avvizzisce.

Canto per i cuori innamorati, per chi ha negli occhi il desiderio e sul volto la stanchezza d’una dolce pena, per chi ha sorriso e per chi ha lacrimato in un’ora in cui la vita brucia più ardente del tempo. L'amore antico che narro fu così forte da sfidare il mare, le tempeste e l'ultimo sonno. Ascoltate: è un destino crudele e dolcissimo. È la storia di Leandro e di Ero. Ed io la canto.

📝 Commento

(vv. 1-8) Boito inaugura il poema con un tono solenne e lirico, richiamando consapevolmente la formula classica dell'invocazione epica ("Canto la storia…"), ma piegandola al registro sentimentale e struggente dell'elegia. La scelta del mito di Ero e Leandro – già caro alla tradizione greca e latina – diventa, in questa riscrittura ottocentesca, simbolo eterno dell'amore tragico.

Il tempo del racconto è sospeso tra passato remoto ("su cui son tanti secoli passati") e futuro ("ritornerà... de' tempi ancor non nati"): l'amore dei due protagonisti è così potente da farsi archetipo universale, sopravvivendo ai secoli.

Il climax poetico si concentra su immagini floreali e delicate: "fiore di poesia, tenero fiore / che, irrorato di lagrime, non muore". È una chiusura densa di simbolismo romantico, dove la bellezza si intreccia con il dolore, e la poesia diventa testimone dell'eterno.

(vv. 9-16) L'invocazione non è rivolta alla Musa classica, come nella tradizione epica antica, ma agli innamorati, ai cuori che hanno amato, agli occhi e alle guance segnati dalla passione. Il poeta assume su di sé la funzione del cantore epico, ma non per narrare guerre e stirpi, bensì per celebrare l'eterno mistero dell'amore. Si tratta, dunque, di una trasposizione moderna della musa epica, dove l'ispirazione non è più divina ma umana, sentimentale, memoriale.

Boito si rivolge direttamente ai lettori, e in particolare a chi ha vissuto l'esperienza amorosa – nella sua ambivalenza di piacere e dolore. Le espressioni "cuori innamorati", "occhi vaghi", "guancie smorte" formano una galleria di immagini pre-raffaellite, fragili e sensuali.

Con "in un'ora di vita ardente e forte", affiora l'intensità propria del sentimento romantico, che consuma l'esistenza in pochi attimi assoluti. L'amore di Ero e Leandro è detto "antico", ma anche modello eterno di passione sfidante: sfida il mare, i fulmini, la morte – i tre elementi simbolici del limite umano.

La conclusione, con la ripetizione circolare del primo verso ("Canto la storia…"), chiude il proemio come una cornice poetica, nella quale il mito si trasforma già in "caso lagrimoso e fero" – dolente e sublime.

[v-2025]

Bibliografia