Alla porta del Ciel diamo l'assalto

Le poetesse fabrianesi tra memoria,
invenzione, retorica e riscrittura

raro, nella storia della letteratura italiana, imbattersi in un caso tanto singolare quanto quello delle cosiddette "poetesse fabrianesi" del Trecento: Leonora della Genga, Ortensia di Guglielmo e Livia del Chiavello. Tre nomi femminili, tre sillogi esili ma dense, tre presenze che sfidano i confini dell'attribuzione e del tempo. Della loro esistenza reale sappiamo pochissimo, talvolta nulla. Ma i loro versi ci sono stati tramandati – tra Cinquecento e Settecento – da fonti dotte e autorevoli come M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, nei suoi Due dialogi (1564) e Topica Poetica (1580), e Giovanni Domenico Scevolini da Bertinoro, nelle Istorie di Fabriano (XVI sec.) raccolte da Giuseppe Colucci (Delle antichità picene, 1792). ✦

Quel che resta, dunque, è un corpus lirico fragile e insieme tenace, in cui si riflette tanto l'immagine culturale di una città – Fabriano, snodo nobile tra Marche, Umbria e Toscana – quanto il gioco complesso tra memoria e invenzione, tra autorità maschili e voce femminile, tra storiografia umanistica e retorica delle origini.

Autenticità o mitografia?

Nel dialogo con il genius loci, con la tradizione petrarchesca e con il fervore devoto del tardo Medioevo, queste poetesse – vere o costruite, isolate o emblematiche – sollevano una questione affascinante: dove finisce l'autenticità e dove comincia la mitografia letteraria? E soprattutto: che tipo di verità può contenere un'"attribuzione devota", che trascende la certezza filologica per entrare nella sfera dell'archetipo e della rappresentazione?

Sentenza in giudicato

Fino a pochi anni fa, il loro nome veniva liquidato con un'alzata di spalle o un sorrisetto di sufficienza. Poetesse trecentesche? No, si diceva: invenzioni letterarie, finzioni tardo-umanistiche, mascherate da reliquie di un Medioevo che non c'era. Le fonti? Cinquecentesche, inattendibili. I testi? Anacronistici, infarciti di forme linguistiche moderne, improbabili nel contesto di una lirica del primo Trecento. Così sostenevano Giosuè Carducci e, dopo di lui, gran parte della filologia ottocentesca e novecentesca, schierata con il piglio deciso del positivismo contro ciò che appariva come un imbroglio, o al più un gioco di specchi erudito.

Richiesta di revisione

Ma oggi, grazie al recente intervento critico del poeta Matteo Veronesi, apparso sulle pagine di "Argo Rivista", il dibattito si riapre, e lo fa con argomentazioni solide, puntuali, non meno rigorose delle negazioni che lo avevano preceduto. Veronesi non difende a ogni costo l'autenticità delle tre poetesse fabrianesi, né cerca di trasformarle in icone femminili ante litteram. Piuttosto, ne osserva i testi, ne misura le tracce formali, e si interroga sulla coerenza della loro presenza all'interno delle opere di Gilio e di Scevolini da Bertinoro. Due opere cinquecentesche, sì, ma strutturate, ponderate, portatrici di un impianto retorico e critico troppo elaborato per poter essere ridotte a mera finzione.

Valutazione delle prove

Emerge allora una possibilità che per troppo tempo è stata scartata a priori: che quei sonetti siano stati davvero scritti da donne, o quantomeno da voci non del tutto anonime, forse tramandati oralmente, forse giunti a Gilio e Scevolini per via manoscritta e poi andati perduti. La forma linguistica, a ben vedere, non è così aliena dal primo Trecento: la troncatura in -ir, ad esempio, stigmatizzata da Foscolo come indice d'inautenticità, è attestata anche in Dante. E non sarebbe la prima volta che un autore medievale sopravvive solo attraverso stampa cinquecentesca, come nel caso di Dante da Maiano o, per alcune opere, di Stefano Protonotaro. Per non dire del Novellino (raccolta medievale di novelle toscane pubblicata per la prima volta a stampa nel Cinquecento) o di poeti minori come Ludovico Paterno, Curzio Gonzaga, Giuliano Goselini (autori i cui libri di rime furono pubblicati per la prima volta o in forme nuove nel XVI secolo, spesso rappresentando la prima diffusione organica e sistematica dei loro testi).

Dunque, perché non concedere anche a Leonora, Ortensia e Livia il beneficio del dubbio?

Veronesi non si accontenta della prudenza storiografica: invita a leggere questi testi come frammenti di una memoria interrotta, ma non per questo inventata. Come esiti di una tradizione poetica femminile che, pur se marginale, ha potuto sedimentarsi e riemergere in epoca umanistica, in un processo di trascrizione e risignificazione che non cancella, ma rilancia il valore dei testi.

Riportiamo in bibliografia i riferimenti all'importante lavoro filologico di Matteo Veronesi, come pure al prezioso studio di Daniele Cerrato, dell'Università di Siviglia, che ricompone le schegge storico-biografiche delle "petrarchiste marchigiane", e rimandiamo alla loro lettura per un approfondimento rigoroso della questione.

La parola ai testi

Noi, da parte nostra, "riascoltiamo" i quattro sonetti di Leonora, i quattro di Ortensia, e i due di Livia, proponendo un'analisi testuale e una riflessione sul senso e sul valore della scrittura poetica femminile in epoca premoderna – specialmente quando trasmessa, custodita e forse anche modellata dalla penna degli uomini.

Non sappiamo con certezza chi scrisse questi versi, né se le autrici furono realmente le donne che la tradizione indica. Ma sappiamo che questi versi esistono, e che valgono. Parlano con voci nette, appassionate, spesso animate da un'intelligenza retorica tutt'altro che ingenua.

Alcuni, come il sonetto "Tacete, o maschi", brillano per coraggio polemico e tensione argomentativa; altri, come le elegie funebri, rivelano una perizia formale che non si improvvisa; quelli di ascesi spirituale toccano vertici di delicatezza mistica rimarchevole; quelli di ambizione poetica, quale il sonetto "Io vorrei pur drizzar queste mie piume", sono esempio di consapevolezza storica e forte identità.

Le poetesse fabrianesi, dunque, non sono solo figure da confermare o smentire: sono figure da interrogare, nella loro ambiguità. E proprio questa ambiguità – storica, filologica, simbolica – le rende straordinariamente contemporanee. Esse incarnano, oggi più che mai, il senso profondo di ogni riscoperta: non il recupero dell'identità perduta, ma la possibilità di far rivivere il passato come zona viva di dialogo.

Le loro rime, perciò, non sono solo documenti: sono presenze. E meritano, comunque vada, di essere ascoltate.

✦ I dieci sonetti delle poetesse di Fabriano vengono qui di seguito integralmente riportati, alcuni nelle versioni dei Due Dialogi (1564) o della Topica poetica (1580) di M. Giovanni Andrea Gilio; altri, in quelle delle Istorie di Fabriano (XVI sec.) di Giovanni Domenico Scevolini; altri ancora, nelle versioni successive, di ordine antologico, di Luisa Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d'ogni secolo (1726) o di Jolanda de Blasi, Antologia delle scrittrici italiane dalle origini al 1800 (1930). Parafrasi, commento e note nostri sono originali.

📜 Per una migliore lettura dei versi, ruota lo schermo.
LEONORA DELLA GENGA Dal suo infinito amor sospinto Iddio Volle crear nel sesto giorno l'uomo E lo degnò di tal favor che l'uomo Fece ritratto ver del sommo Iddio. Perfido, e ingrato al suo fattore, e Dìo l'offese sì, sì lo sprezzò quest'uomo Che perder meritò sembianza d'uomo E perder la sembianza anco d'Iddio. Ma per dar la natia sua forma all'uomo Sparse il suo sangue in su la Croce Iddio Perchè fusse color da pianger l'uomo. Oh mirabile amor del nostro Iddio! Che per poter morir si fece un'uomo Acciò che l'uom si trasformasse in Dio. * * * Tacete, o maschi, a dir che la Natura a fare il maschio solamente intenda, e per formar la femmina non prenda se non contra sua voglia alcuna cura. Qual'invidia per tal, qual nube oscura fa che la mente vostra non comprenda com'ella in farle ogni sua forza spenda, onde la gloria lor la vostra oscura? Sanno le donne maneggiar le spade, sanno regger gl'imperi, e sanno ancòra trovar il cammin dritto in Elicona. In ogni cosa il valor vostro cade, uomini, appresso loro. Uomo non fôra mai per tôrne di man pregio o corona. * * * Di Smeraldi, di perle, e di diamanti Cuopra il tranquillo Giano ambe le sponde. Sian le sue arene or fino, Ambrosia l'onde; Ne 'l Tebro, o 'l Mintio a par di lui si vanti. Vesta gigli il terren, viole, acanti. Tengan sempre gli honor de le sue fronde Gli alberi, e mille Ninfe alme e gioconde Mandin per l'aria i suoi più dolci canti. Lasci Tessaglia Apollo, Amphriso, e Delo, E qui porti la lira, e qui gli armenti Pasca, e qui pianti i sempre verde allori. Questi i trionfi sien, questi gli honori Di voi Ortensia, a i cui soaui accenti Si fà tranquillo il mondo, e s'apre il Cielo. * * * Coprite, o muse, di color funebre Tutto Parnaso, ed ogni loco appresso; Svelto il lauro, piantate ivi il cipresso, Sien le vostre querele ognor più crebre. Il pianto, che uscirà dalle palpebre Empia Aganippe, e non si trovi in esso Altro liquor, che quel, che vi fia messo Dagl'occhi vostri, e dall'altrui tenebre, E poi, che avrete con dolenti segni Mostrati i danni sempiterni vostri, Per Ortensia gentile a tondo, a tondo; Direte a tutti i pellegrini ingegni, Che spendono in lodare i sacri inchiostri, Questo spirto gentil sì raro al Mondo.


(Leonora della Genga)
Dal suo infinito amor sospinto Iddio
Volle crear nel sesto giorno l'uomo
E lo degnò di tal favor che l'uomo
Fece ritratto ver del sommo Iddio.

Perfido, e ingrato al suo fattore, e Dìo
l'offese sì, sì lo sprezzò quest'uomo
Che perder meritò sembianza d'uomo
E perder la sembianza anco d'Iddio.

Ma per dar la natia sua forma all'uomo
Sparse il suo sangue in su la Croce Iddio
Perchè fusse color da pianger l'uomo.

Oh mirabile amor del nostro Iddio!
Che per poter morir si fece un'uomo
Acciò che l'uom si trasformasse in Dio.
--
(Tratto da: Giovanni Domenico Scevolini, Dell'istorie di Fabriano, XVI sec.)

✏️ Parafrasi

Spinto dal suo amore infinito, Dio volle creare l'uomo nel sesto giorno della creazione e gli concesse un tale onore da farlo a immagine fedele dell'Altissimo.

Ma l'uomo, perfido e ingrato verso il suo Creatore, lo offese e disprezzò a tal punto da meritare di perdere non solo la dignità umana, ma anche la somiglianza divina che lo connotava.

E tuttavia, per restituire all'uomo la sua forma originaria, Dio sparse il suo sangue sulla Croce, affinché quel sangue fosse il "colore" capace di commuovere e convertire l'uomo.

O amore mirabile del nostro Dio, che, per poter morire, si fece uomo, affinché l'uomo potesse trasformarsi in Dio.

📚 Commento

Il sonetto, saldamente ancorato al modello petrarchesco, si muove entro i temi centrali della teologia medievale: la creazione come imago Dei, la caduta, la redenzione attraverso l'Incarnazione e il sacrificio della Croce. Il lessico – "ritratto", "colore", "forma", "sembianza" – richiama la dottrina dell'immagine, cara tanto alla scolastica quanto alla spiritualità francescana e domenicana del Trecento, ma viene trasfigurato in lirica meditazione.

Struttura retorica

L'argomentazione segue uno schema tripartito e lineare:

Il distico conclusivo raccoglie e rovescia l'intera dialettica: Dio si fa uomo perché l'uomo diventi Dio. È il cuore della teologia patristica della theosis (da Atanasio a Gregorio di Nissa, fino a Ireneo di Lione: Deus homo factus est, ut homo fieret Deus), che trova qui una formulazione poetica di sorprendente efficacia.

Il colore dell'uomo

La metafora pittorica del sangue come "colore" è particolarmente raffinata: l'uomo, immagine corrotta, viene ridipinto dal sangue di Cristo. È un'immagine che unisce la cultura figurativa medievale – il sangue come elemento cromatico e devozionale – alla riflessione teologica sui segni sensibili come veicoli di grazia.

Lo stile, sobrio ma intenso, è quello della poesia meditativa: nessun compiacimento retorico, ma una sequenza argomentativa chiara e solenne. L'insistenza su "uomo/Dio" costruisce un ritmo binario e ossessivo, che sottolinea la simmetria drammatica del rapporto creatore/creatura. Il climax discendente della seconda quartina (perdita della sembianza umana e divina) si ribalta in climax ascendente nella seconda terzina (Dio si abbassa per innalzare l'uomo).

Deus homo factus est

L'insieme rivela un orizzonte culturale colto, probabilmente legato a un ambiente conventuale o semi-monastico, dove la meditazione sulla Passione e sul mistero dell'Incarnazione era parte integrante della formazione spirituale. In questo senso, il sonetto si presenta come un piccolo esercizio di "teologia poetica": un testo che, pur breve, riesce a fondere fede, arte e dottrina, offrendo al lettore un'immagine intensa, commovente e intellettualmente solida del mistero cristiano.

🔎 Note testuali

(Leonora della Genga – Dal suo infinito amor sospinto Iddio)

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(Leonora della Genga)
Tacete, o maschi, a dir che la Natura
a fare il maschio solamente intenda,
e per formar la femmina non prenda
se non contra sua voglia alcuna cura.

Qual'invidia per tal, qual nube oscura
fa che la mente vostra non comprenda
com'ella in farle ogni sua forza spenda,
onde la gloria lor la vostra oscura?

Sanno le donne maneggiar le spade,
sanno regger gl'imperi, e sanno ancòra
trovar il cammin dritto in Elicona.

In ogni cosa il valor vostro cade,
uomini, appresso loro. Uomo non fôra
mai per tôrne di man pregio o corona.
--
(Tratto da: Jolanda de Blasi, Antologia delle scrittrici italiane, 1930)

🖋 Parafrasi

Zitti, uomini, smettete di dire che la Natura voglia creare soltanto il maschio, e che nel formare la donna vi ponga cura se non come costretta e contro voglia.

Quale invidia, quale oscurità mentale vi impedisce di capire che essa, nel dargli la vita, impiega tutte le sue forze, così che il merito loro offusca e sovrasta il vostro?

Le donne sanno brandire le spade, sanno governare gli imperi, e sanno anche trovare la strada giusta che conduce all'Elicona (dimora delle Muse).

In ogni campo, uomini, il vostro valore impallidisce di fronte a quello delle donne: mai potrete toglier loro l'onore e la gloria che gli spettan di diritto.

📚 Commento

Il sonetto è un manifesto poetico sorprendente per il Trecento: Leonora della Genga non solo difende la dignità femminile, ma proclama una vera e propria superiorità della donna.

Contesto filosofico e teologico

L'attacco alla "natura" va letto alla luce della concezione dominante nel Medioevo, che si rifaceva ad Aristotele e alla sua lettura cristiana in Tommaso d'Aquino: la donna era considerata un "maschio mancato" (mas occasionatus), una forma imperfetta generata per difetto. A questo pregiudizio si affiancava la tradizione teologica che associava Eva alla caduta e al peccato originale, accentuando l'idea della donna come debole, inaffidabile e subordinata. Leonora rovescia questa visione: la Natura non solo crea la donna di proposito, ma vi profonde le sue energie migliori.

Strategia retorica

Le quartine smascherano il pregiudizio maschile come frutto di "invidia" e di cecità: l'oscuramento dell'intelletto impedisce agli uomini di riconoscere la verità. Le terzine ribaltano tre stereotipi radicati: la donna incapace di combattere (armi), di governare (politica), e di creare (poesia). Al contrario, le donne eccellono in ciascuno di questi ambiti.

Protofemminismo

Il sonetto si inserisce, con grande anticipo, nel filone della querelle des femmes: quella lunga disputa, che dal Medioevo al Rinascimento contrappose sostenitori e detrattori della dignità femminile. È inevitabile pensare a Christine de Pizan (1364–ca. 1430), che con la Cité des dames (1405) offrì un'apologia sistematica delle virtù femminili, ma anche a scrittrici italiane come Moderata Fonte e Lucrezia Marinella (XVI-XVII secolo), che riprenderanno con forza temi simili. Leonora, seppure in forma ancora isolata, anticipa di un secolo quelle rivendicazioni, con un coraggio notevole per il suo contesto.

Valore letterario e simbolico

La triade "armi–imperi–Elicona" racchiude i tre campi supremi dell'autorità maschile: la guerra, il potere e la poesia. Attribuendoli alle donne, Leonora compie una sovversione radicale. La chiusa è perentoria: "il valor vostro cade". Qui la poesia si fa sentenza, affermazione di un destino rovesciato.

Per la lirica italiana trecentesca, dominata da modelli maschili (stilnovisti, petrarchisti) e da un'immagine idealizzata e passiva della donna, il sonetto di Leonora è un unicum: la donna parla in prima persona, non come oggetto ma come soggetto fiero e militante. La sua forza sta nella chiarezza dell'argomentazione e nel coraggio della voce poetica, che non chiede il permesso di parlare, ma se lo prende.

🔎 Note testuali

(Leonora della Genga – Tacete, o maschi, a dir che la Natura)

📌 Influenze religiose e filosofiche

1. Influenze religiose cristiane

2. Influenze filosofiche greche antiche

3. Norme giuridiche romane

4. Implicazioni sociali e culturali

In sintesi, la combinazione di una interpretazione religiosa negativa della femminilità, di una filosofia che giustificava l'inferiorità naturale, e di un diritto che consolidava la subordinazione sociale ha generato un sistema di pregiudizi contro le donne fortemente radicato nella cultura medievale, le cui tracce sono evidenti anche nella letteratura e nei discorsi poetici come quello di Leonora della Genga.

👉 Tanta strada da fare, intendiamo quella per sortir fuori dal pregiudizio antifemminista, se ancora tra '700 e '800 impazzava in Italia un sonetto di Onofrio Minzoni, intitolato "Sulla morte di Cristo", che così recitava:

Quando Gesù con l'ultimo lamento
schiuse le tombe, e la montagna scosse,
Adamo rabbuffato e sonnolento
levò la testa e sopra i piè rizzosse.
Le torbide pupille intorno mosse,
pieno di meraviglia e di spavento,
e palpitando addimandò chi fosse
lui, che pendeva insanguinato e spento.
Come lo seppe, alla rugosa fronte,
al crin canuto, ed alle guance smorte,
colla pentita man fe' danni ed onte.
Si volse lagrimando alla consorte,
e gridò sì, che rimbombonne il monte:
– Io per te diedi al mio Signor la morte!


L'autore, canonico e predicatore ferrarese, godeva in Italia di larga ammirazione e stima tra i letterati del tempo, ma in questo sonetto, come chiosa Benedetto Croce (Aneddoti di varia letteratura, I), "la sua nullità è mostrata nell'idea che l'informa e a cui mette capo. Adamo, risvegliandosi com'ebbro, rabbuffato e sonnolento, e con gli occhi torbidi, dopo avere somministrato il castigo che si è detto alla fronte, ai capelli e alle guance, non ha altro pensiero che di far «rimbombare» il monte di una accusa a sua moglie, di un «La colpa fu tua», che è quanto di più vile si possa immaginare del nostro primo parente".

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(Leonora della Genga)
Di Smeraldi, di perle, e di diamanti
Cuopra il tranquillo Giano ambe le sponde.
Sian le sue arene or fino, Ambrosia l'onde;
Ne 'l Tebro, o 'l Mintio a par di lui si vanti.

Vesta gigli il terren, viole, acanti.
Tengan sempre gli honor de le sue fronde
Gli alberi, e mille Ninfe alme e gioconde
Mandin per l'aria i suoi più dolci canti.

Lasci Tessaglia Apollo, Amphriso, e Delo,
E qui porti la lira, e qui gli armenti
Pasca, e qui pianti i sempre verde allori.

Questi i trionfi sien, questi gli honori
Di voi Ortensia, a i cui soaui accenti
Si fà tranquillo il mondo, e s'apre il Cielo.
--
(Tratto da: M. Giovanni Andrea Gilio, Topica poetica, 1580)

🖋 Parafrasi

Che le rive del Giano, fiume di Fabriano, siano ricoperte di gemme preziose; che le sue sabbie diventino finissime, e le acque divine come ambrosia. Né il Tevere né il Mincio potranno vantarsi di eguagliarlo.

Che la terra si rivesta di gigli, viole e acanti; che gli alberi conservino sempre la dignità delle loro fronde; e che mille ninfe gioiose intonino i canti più dolci.

Che Apollo abbandoni la Tessaglia, l'Anfrisio e Delo, e venga qui, con la sua lira, a pascolare gli armenti e a piantare allori sempreverdi.

Questi siano i trionfi e gli onori destinati a voi, Ortensia: perché ai vostri soavi versi il mondo si fa sereno e il cielo stesso si dischiude.

📚 Commento

Questo sonetto encomiastico è dedicato da Leonora della Genga alla concittadina Ortensia di Guglielmo, anch'ella poetessa: un raro esempio di elogio femminile scritto da una donna per un'altra donna.

L'Arcadia fabrianese

La scena si apre con la celebrazione del Giano, fiume "minore", che diventa centro poetico e simbolico più illustre del Tevere (Roma) e del Mincio (Mantova), tradizionali fiumi del canone classico e petrarchesco. È un gesto di riscatto culturale periferico: Fabriano diventa Arcadia, mitizzata e sacralizzata.

Gigli, viole e acanti ornano la terra; gli alberi non perdono mai le loro fronde; ninfe cantano nell'aria. La natura si veste dei simboli più alti della classicità: purezza, modestia, bellezza immortale. È un paesaggio ideale, che riflette e amplifica la voce poetica di Ortensia.

Apollo convocato

Leonora chiede al dio della poesia di lasciare le sue sedi canoniche (la Tessaglia, l'Anfrisio, Delo) per trasferirsi a Fabriano. È un rovesciamento della geografia poetica tradizionale: non più Atene, Roma o Mantova, ma il piccolo centro marchigiano. Apollo stesso, con la sua lira e i suoi allori, deve inchinarsi all'autorità poetica di Ortensia.

Potenza cosmica della poesia

Il canto di Ortensia è descritto come forza cosmica: "si fà tranquillo il mondo, e s'apre il cielo". Non un semplice elogio amicale, ma una vera canonizzazione poetica: Ortensia diventa figura mediatrice tra cielo e terra, con una parola capace di pacificare e rivelare.

Sorellanza letteraria

L'elogio non è solo personale: rappresenta una presa di posizione culturale. Leonora riconosce in Ortensia una pari, una compagna di scrittura, e la celebra con immagini solitamente riservate ai grandi poeti maschi. È un atto di sorellanza letteraria, raro per l'epoca, che testimonia un'autocoscienza femminile emergente.

Valore storico-letterario

Il sonetto si inserisce nel solco dell'encomio mitologico-pastorale di ascendenza virgiliana e petrarchesca, ma con una novità decisiva: al centro non c'è il poeta maschio, bensì una donna. È un passo che anticipa, con sensibilità tutta trecentesca, temi della futura querelle des femmes: la legittimazione della voce poetica femminile come autonoma e autorevole.

Inoltre, nel suo gesto poetico si coglie una rivendicazione doppia: quella della voce femminile come agente di armonia e ispirazione, e quella di Fabriano come nuova capitale della poesia – non per decreto, ma per merito delle sue donne.

🔎 Note testuali

(Leonora della Genga – Di Smeraldi, di perle, e di diamanti)

👉 C'è, in questa storia, un paradosso che ha il sapore della beffa: Fabriano, dal XIII secolo tra i più importanti centri europei di produzione della carta, non conserva oggi – né sembra aver mai conservato – un solo esemplare su carta, neppure di uno soltanto dei sonetti attribuiti alle sue poetesse trecentesche. Forse un destino ironico, forse il segno che quelle voci furono tramandate per vie altre, orali o manoscritte poi disperse, fino a riaffiorare nelle stampe cinquecentesche. Ma proprio questa mancanza materiale, in una città che della carta fece la sua gloria, rende il loro recupero ancora più vivo e, in un certo senso, più poetico.
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💬 "È' posta in proverbio, la Carta Fabrianese, di cui gran quantità se ne porta non solamente per tutte le province d'Italia, ma in Germania e in Levante, particolarmente in Alessandria di Egitto, ed in Costantinopoli, ove sono fundati degli uomini di Fabriano. Io non ho potuto a mio modo venire in perfetta cognizione chi prima portasse quest'arte, e quando a Fabriano, se non che in una memoria tutta lacera, e questa trovo aver cominciato nell'anno di Cristo novecentonovanta". (Scevolini, Dell'istorie di Fabriano)

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(Leonora della Genga)
Coprite, o muse, di color funebre
Tutto Parnaso, ed ogni loco appresso;
Svelto il lauro, piantate ivi il cipresso,
Sien le vostre querele ognor più crebre.

Il pianto, che uscirà dalle palpebre
Empia Aganippe, e non si trovi in esso
Altro liquor, che quel, che vi fia messo
Dagl'occhi vostri, e dall'altrui tenebre,

E poi, che avrete con dolenti segni
Mostrati i danni sempiterni vostri,
Per Ortensia gentile a tondo, a tondo;

Direte a tutti i pellegrini ingegni,
Che spendono in lodare i sacri inchiostri,
Questo spirto gentil sì raro al Mondo.
--
(Tratto da: Luisa Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici, 1726)

🖋 Parafrasi

Muse, avvolgete il Parnaso e ogni luogo poetico in un velo di lutto; sradicate l'alloro (simbolo della gloria) e piantate al suo posto il cipresso (albero funebre); che le vostre lamentazioni siano sempre più fitte.

Il pianto che scenderà dai vostri occhi riempia la fonte Aganippe, e in essa non si trovi altro umore se non quello versato dai vostri occhi e dal dolore degli altri.

E quando avrete mostrato con segni dolenti l'eterno danno patito per la morte della gentile Ortensia, dappertutto, allora direte a tutti gli "ingegni pellegrini", i poeti erranti che lodano i sacri scritti, che questo spirito gentile fu davvero rarissimo al mondo.

📚 Commento

Leonora eleva il lutto privato per la morte di Ortensia a rito universale. Non piange solo un'amica, ma convoca l'intero immaginario poetico classico: il Parnaso, Aganippe, le Muse. Non chiede ispirazione, ma invoca le divinità della poesia perché diventino sacerdotesse del dolore.

Elegia mitico-rituale

È un'elegia che trasfigura il paesaggio mitico: l'alloro di Apollo, emblema di gloria, è divelto e sostituito dal cipresso, albero funebre; Aganippe, fonte d'ispirazione, trabocca non di acque vive ma di lacrime. La poesia stessa entra in lutto: la poetessa affida il cordoglio non solo alla propria voce, ma alla voce collettiva della poesia stessa, dichiarando Ortensia esempio raro di spirito e arte.

Morte come danno "sempiterno"

L'espressione "danni sempiterni" segnala che la perdita di Ortensia è irreparabile: la sua voce era così alta da lasciare un vuoto eterno nella comunità poetica. Non è solo il dolore di Leonora, ma un trauma collettivo del mondo letterario.

Ortensia canonizzata

La chiusa conferisce a Ortensia una canonizzazione poetica: agli "ingegni pellegrini" – i poeti e gli intelletti futuri, erranti alla ricerca di bellezza – viene affidato il compito di tramandarne la memoria celebrando i suoi "sacri inchiostri". La poesia diventa qui un testamento culturale: Ortensia è elevata a "spirto gentil sì raro al Mondo", una formula che riecheggia il linguaggio stilnovista e petrarchesco, ma con una radicale novità: il soggetto celebrato è una donna-poeta, non più una donna-musa muta.

Sorellanza e genealogia femminile

Questo sonetto rappresenta uno dei momenti più alti di sorellanza letteraria del Trecento. Leonora, poetessa fabrianese, non solo piange la perdita di Ortensia, ma la consacra come parte di una genealogia alternativa, tutta femminile, in cui le Muse, le donne, le voci poetiche diventano protagoniste di un pantheon autonomo.

Contestualizzazione culturale

🔎 Note testuali

(Leonora della Genga – Coprite, o muse, di color funebre)
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ORTENSIA DI GUGLIELMO Io vorrei pur drizzar queste mie piume Colà Signor, doue il desio me inuita, E dopo morte rimanere in vita Col chiaro di virtute inclito lume. Ma il volgo inerte, che dal rio costume Vinto, hà d'ogni suo ben la via smarrita: Come degna di biasmo ogn'hor m'addita, Ch'ir tenti d'Helicona al sacro fiume. Al l'Ago, al Fuso, piu ch'al Lauro, ò al Mirto; Come se qui non sia la gloria mia Vuol c'habbia sempre questa mente intesa. Dimmi tu homai, che per piu dritta via A Parnaso te'n vai, nobile spirto, Deurò dunque lasciar si degna impresa? * * * Tema, e speranza entro il mio cor fan guerra, E quanto innanzi lo sperar mi tira, Tanto il timore indietro mi ritira; M'innalza quel, questo mi getta in terra. Mi sciolge l'un, l'altro più stretto afferra, Ed in mille pensier m'involve, e gira, Onde lo spirto mio piange, e sospira, Ma non per questo il suo valor lo sferra. Al fin, poiche il tardar nulla rileva, E fatta del mortal periglio accorta, La speme i colpi suoi tutti rinforza: Anima, dice, alla celeste porta Diamo l'assalto; e se il nemico aggreva, Sai, che il regno del Ciel patisce forza. * * * Ecco, Signor, la greggia tua d'intorno cinta di lupi a divorarla intenti; ecco tutti gli onor d'Italia spenti poiché fa altrove il gran Pastor soggiorno. Deh, quando fia quell'aspettato giorno ch'ei venga per levar tanti lamenti, e riveder gli abbandonati armenti che attendon sospirando il suo ritorno? Movil tu, Signor mio pietoso e sacro, ch'altri non è che il suo bisogno intenda meglio, o più veggia il suo dolore atroce. E prego sol che quello amor t'accenda che per farli un celeste almo lavacro versar ti fece il proprio sangue in Croce. * * * Vorrei talhor dell'intelletto mio Tanto sopra me stessa alzar le penne; Che potessi veder quanto sostenne, Per amor nostro, il gran figliuol di Dio. Come pieno di zelo ardente e pio, Sendo egli offeso, a chieder pace venne. Come, e qual fren con noi tanto lo tenne: E come sù la Croce al fin morio. Ma vinta al fin dalla grandezza immensa De l'audace disio ripiego l'ali; E dico, ò grande amor, chi ti comprende? Quanto ti seguo più, tanto più sali; Ti fai maggior, quanto più in te si pensa; Te intende sol, chi sa che non t'intende.


(Ortensia di Guglielmo)
Io vorrei pur drizzar queste mie piume
Colà Signor, doue il desio me inuita,
E dopo morte rimanere in vita
Col chiaro di virtute inclito lume.

Ma il volgo inerte, che dal rio costume
Vinto, hà d'ogni suo ben la via smarrita:
Come degna di biasmo ogn'hor m'addita,
Ch'ir tenti d'Helicona al sacro fiume.

Al l'Ago, al Fuso, piu ch'al Lauro, ò al Mirto;
Come se qui non sia la gloria mia
Vuol c'habbia sempre questa mente intesa.

Dimmi tu homai, che per piu dritta via
A Parnaso te'n vai, nobile spirto,
Deurò dunque lasciar si degna impresa?
--
(Tratto da: M. Giovanni Andrea Gilio, Due Dialogi, 1564)

🖋 Parafrasi

Vorrei davvero spiegare le mie ali e levarmi, o Signore, verso il luogo dove il desiderio interiore mi chiama, e poter, grazie al luminoso splendore della virtù, restare viva dopo la morte nella memoria immortale.

Ma il popolo inerte, corrotto dalla cattiva abitudine e ormai privo di ogni via verso il bene, mi addita sempre al pubblico biasimo perché oso avvicinarmi al sacro fiume dell'Elicona (fonte delle Muse).

Questo volgo pretende che io rivolga la mente non all'alloro o al mirto (segni della gloria poetica e dell'amore), ma all'ago e al fuso (simboli del lavoro domestico femminile), come se solo in essi potesse trovarsi la mia gloria.

Ora, dimmi tu, che percorri con passo più sicuro la retta via verso il Parnaso, spirito nobile: dovrei dunque davvero abbandonare un'impresa tanto elevata e degna?

📚 Commento

Questo primo sonetto attribuito a Ortensia di Guglielmo – tramandato da Gilio nella Topica Poetica – costituisce uno dei testi più alti ed emblematici dell'intera micro-antologia fabrianese.

Il volo delle piume

In esso, Ortensia afferma con coraggio la propria identità poetica in un contesto che non la riconosce. L'immagine iniziale delle "piume" da drizzare è metafora del volo della mente e della vocazione poetica, che vuole condurla al Parnaso e all'Elicona: la poesia è per lei la via per superare la morte attraverso la gloria e la virtù. Ma questa aspirazione incontra subito l'ostacolo del "volgo inerte": la massa conformista, vinta dal "rio costume", che non ammette una donna tra i poeti e la addita al biasimo come sacrilega per aver osato accostarsi al fiume sacro delle Muse.

La gloria femminile nella scrittura

Il cuore del sonetto è nell'opposizione simbolica fra "ago e fuso" da una parte e "lauro e mirto" dall'altra. I primi rappresentano la sfera domestica, il compito imposto alle donne di filare e tacere; i secondi sono emblemi classici di gloria poetica e di poesia amorosa. Ortensia rovescia l'aspettativa sociale: la sua gloria non può trovarsi nella tessitura, ma nella scrittura. È un gesto di straordinaria consapevolezza, che rivendica per la donna un ruolo attivo nel dominio tradizionalmente maschile della poesia.

Il nobile spirto e l'invito a Petrarca

Il finale è una domanda retorica rivolta a un "nobile spirto" che percorre la via più dritta verso il Parnaso. Giovanni Andrea Gilio, che ci ha tramandato il sonetto, ha creduto di riconoscere, nel personaggio interrogato da Ortensia, Francesco Petrarca ("A la quale il Petrarca rispose il sonetto, La gola, il sonno, e l'otiose piume. E non al Boccaccio come è commune opinione de' commentatori del Petrarca"), addirittura ipotizzando che proprio da questa proposta della poetessa sia nato, quale risposta, il celebre sonetto di lui*, che tradizione vuole invece rivolto al Boccaccio. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un dialogo poetico senza precedenti: una donna che interpella il poeta più autorevole del Trecento non come musa, ma come interlocutrice.

* Francesco Petrarca, Il Canzoniere, Sonetto VII

La gola e 'l somno et l'otïose piume / ànno del mondo ogni vertú sbandita, / ond'è dal corso suo quasi smarrita / nostra natura vinta dal costume; / et è sì spento ogni benigno lume / del ciel, per cui s'informa humana vita, / che per cosa mirabile s'addita / chi vòl far d'Elicona nascer fiume. // Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? / Povera et nuda vai philosophia, / dice la turba al vil guadagno intesa. / Pochi compagni avrai per l'altra via: / tanto ti prego piú, gentile spirto, / non lassar la magnanima tua impresa.

Parafrasi
I piaceri della gola, il sonno e l'ozio hanno fatto sparire dal mondo ogni virtù; per questo motivo la nostra natura umana è quasi smarrita e sopraffatta dalle cattive abitudini. È spento ogni lume benefico del cielo che dà forma e vita agli uomini, ed è considerata impresa straordinaria e quasi impossibile per chiunque far scaturire un fiume poetico dal monte Elicona. Quale prestigio o gloria si può sperare? La filosofia, povera e spoglia, continua il suo cammino, ma la folla, attratta solo dal guadagno meschino, la disprezza. Percorrerai infatti questa strada solitario e con pochi compagni. Perciò ti esorto con maggior forza, gentile spirito, a non abbandonare la grande impresa che hai intrapreso.

🔎 Note testuali

(Ortensia di Guglielmo – Io vorrei pur drizzar queste mie piume)
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(Ortensia di Guglielmo)
Tema, e speranza entro il mio cor fan guerra,
E quanto innanzi lo sperar mi tira,
Tanto il timore indietro mi ritira;
M'innalza quel, questo mi getta in terra.

Mi sciolge l'un, l'altro più stretto afferra,
Ed in mille pensier m'involve, e gira,
Onde lo spirto mio piange, e sospira,
Ma non per questo il suo valor lo sferra.

Al fin, poiche il tardar nulla rileva,
E fatta del mortal periglio accorta,
La speme i colpi suoi tutti rinforza:

Anima, dice, alla celeste porta
Diamo l'assalto; e se il nemico aggreva,
Sai, che il regno del Ciel patisce forza.
--
(Tratto da: Luisa Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici, 1726)

🖋 Parafrasi

La speranza e la paura si contendono il dominio del mio cuore, e quanto più la speranza mi spinge in avanti, tanto più il timore mi tira indietro; la prima mi solleva, il secondo mi abbatte.

La speranza mi libera, il timore mi stringe con forza; e così mi travolgono in mille pensieri che mi fanno piangere e sospirare; e tuttavia, nonostante il dolore, il mio spirito non perde il suo coraggio.

Alla fine, poiché indugiare non porta alcun vantaggio, e resasi consapevole del pericolo mortale, la speranza rafforza tutti i suoi attacchi: "Anima", dice, "diamo l'assalto alla porta del Cielo; e se il nemico ci ostacola, ricorda che il Regno dei Cieli si conquista con la forza".

📚 Commento

Questo sonetto mette in scena una psicomachia interiore, un combattimento tra due forze opposte – Speranza e Timore – che si contendono l'anima della poetessa. La prima quartina descrive il moto contrastante: la speranza solleva, il timore abbatte. La seconda quartina rafforza il senso di lacerazione: l'anima è sciolta e imprigionata al tempo stesso, trascinata in un vortice di pensieri che la portano al pianto. Tuttavia, in mezzo al dolore, resta saldo il coraggio, segno che la coscienza non si arrende.

L'assalto alla porta del Cielo

Il passaggio decisivo avviene nella prima terzina: l'anima comprende che il tempo non è infinito e che la morte è un pericolo reale, incombente. A quel punto, la speranza diventa non più fragile slancio, ma forza guerriera: si arma e rinforza i suoi colpi. Nell'ultima terzina l'anima stessa prende la parola, trasformandosi in soggetto attivo: non attende, ma attacca. L'immagine dell'"assalto alla porta del Cielo" è ardita e militare, e culmina nella citazione evangelica "il regno dei cieli patisce violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Matteo 11:12). La fede non è passiva attesa della grazia, ma conquista, sforzo, violenza spirituale.

Ortensia miles Christi

L'originalità di Ortensia sta proprio qui: la sua anima femminile si rappresenta come miles Christi, guerriera di Cristo, non devota remissiva, ma combattente mistica. È una visione più agostiniana che tomista: la grazia non annulla il conflitto, ma lo trasforma in movimento verso l'alto. L'anima è fragile, sospira, ma nello stesso tempo osa forzare le porte del cielo. Questa tensione, insieme psicologica e religiosa, fa del sonetto uno dei testi più potenti della piccola antologia fabrianese, unendo introspezione, pathos e dottrina.

Nel confronto con il sonetto precedente ("Io vorrei pur drizzar queste mie piume"), il movimento ascensionale si radicalizza: non è più aspirazione desiderante, ma decisione guerriera. Ortensia si mostra come voce poetica e spirituale insieme, capace di trasformare il dramma dell'anima in parola colta e ardente.

🔎 Note testuali

(Ortensia di Guglielmo – Tema, e speranza entro il mio cor fan guerra)

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(Ortensia di Guglielmo)
Ecco, Signor, la greggia tua d'intorno
cinta di lupi a divorarla intenti;
ecco tutti gli onor d'Italia spenti
poiché fa altrove il gran Pastor soggiorno.

Deh, quando fia quell'aspettato giorno
ch'ei venga per levar tanti lamenti,
e riveder gli abbandonati armenti
che attendon sospirando il suo ritorno?

Movil tu, Signor mio pietoso e sacro,
ch'altri non è che il suo bisogno intenda
meglio, o più veggia il suo dolore atroce.

E prego sol che quello amor t'accenda
che per farli un celeste almo lavacro
versar ti fece il proprio sangue in Croce.
--
(Tratto da: Jolanda de Blasi, Antologia delle scrittrici italiane, 1930)

🖋 Parafrasi

Ecco, Signore, il tuo gregge (i cristiani) assediato da lupi pronti a sbranarlo; ecco che tutti gli onori d'Italia sono estinti, da quando il Sommo Pastore dimora lontano dalla sua sede (ad Avignone).

Oh, quando giungerà quel giorno tanto atteso in cui egli (il Papa) tornerà a porre fine a tanti lamenti e a visitare gli armenti abbandonati (i fedeli), che lo aspettano sospirando il suo ritorno?

Muovilo tu, Signore mio, misericordioso e santo; perché nessun altro è in grado di comprendere meglio di te il dolore profondo della tua gente.

E io ti prego soltanto che ti infiammi quell'amore che ti spinse a versare il tuo stesso sangue sulla Croce, per offrire loro (agli uomini) un lavacro celeste (la salvezza).

📚 Commento

Questo sonetto è una delle pagine più graffianti della piccola antologia fabrianese, perché unisce in sé preghiera a Cristo e appello civile al Papa. Ortensia prende la parola come coscienza profetica: denuncia l'abbandono dei fedeli, descritti come gregge assediato dai lupi, e invoca il ritorno del "gran Pastor", il pontefice residente ad Avignone. È un grido che nasce dalla ferita storica della "cattività avignonese" (1309–1377), che segnò per l'Italia una lacerazione spirituale e politica.

Il gregge senza pastore

Nella prima quartina il quadro è di desolazione: l'immagine pastorale è biblica (Giovanni 10, il Buon Pastore), ma qui assume anche un tono politico: l'Italia, privata della sede papale, è terra smarrita, priva di onore e di guida. La seconda quartina apre all'attesa escatologica: "quando fia quell'aspettato giorno…?". È il linguaggio dei Salmi e dell'Apocalisse, ma applicato alla speranza del ritorno del pontefice a Roma: un misto di nostalgia e di visione profetica.

L'almo lavacro

Nelle terzine la voce di Ortensia si alza con più ardore. Da un lato si rivolge direttamente a Cristo ("Signor mio pietoso e sacro"), riconoscendo in Lui l'unico che possa comprendere il dolore del popolo; dall'altro la sua invocazione si colora di esortazione implicita al papa, che di Cristo è vicario. L'ultima immagine è potente: il sacrificio della Croce, il sangue versato per un "celeste almo lavacro", viene evocato come modello per riaccendere il cuore del Pastore e riportarlo al suo dovere. È un paragone ardito ma coerente con la spiritualità medievale: così come Cristo non esitò a immolarsi per il gregge, così il papa deve tornare a Roma per salvare la sua Chiesa.

Una voce civile

Il valore del testo non è solo devozionale: è anche civile e politico. L'Italia viene descritta come spenta negli onori, abbandonata a se stessa, e Ortensia si fa voce di un dolore collettivo. È una poesia che condivide con Caterina da Siena la passione ecclesiale e il tono profetico: ma mentre Caterina scrive lettere dirette e appassionate, Ortensia esprime il medesimo spirito in forma lirica, elegiaca, colta, intrecciando Bibbia e mito pastorale.

Il sonetto si legge dunque come un atto di coraggio e responsabilità femminile: una donna, nel Trecento, osa rivolgersi a Cristo e al papa, chiamandoli a un compito di rinnovamento e di ritorno. La sua voce non è marginale, ma si pone al centro della crisi spirituale e politica della cristianità.

🔎 Note testuali

(Ortensia di Guglielmo – Ecco, Signor, la greggia tua d'intorno)

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(Ortensia di Guglielmo)
Vorrei talhor dell'intelletto mio
Tanto sopra me stessa alzar le penne;
Che potessi veder quanto sostenne,
Per amor nostro, il gran figliuol di Dio.

Come pieno di zelo ardente e pio,
Sendo egli offeso, a chieder pace venne.
Come, e qual fren con noi tanto lo tenne:
E come sù la Croce al fin morio.

Ma vinta al fin dalla grandezza immensa
De l'audace disio ripiego l'ali;
E dico, ò grande amor, chi ti comprende?

Quanto ti seguo più, tanto più sali;
Ti fai maggior, quanto più in te si pensa;
Te intende sol, chi sa che non t'intende.
--
(Tratto da: M. Giovanni Andrea Gilio, Topica poetica, 1580)

🖋 Parafrasi

A volte, vorrei che il mio intelletto potesse sollevarsi così in alto su di me da riuscire a contemplare quanto ha sofferto, per amore nostro, il grande figlio di Dio.

Vorrei vedere come, pieno di passione ardente e santa, pur essendo stato offeso, venne a chiedere pace; come poté trattenersi con noi, quale freno lo tenne, e infine come giunse a morire sulla Croce.

Ma infine, vinta dall'immensità del mistero, ripiego le ali dell'audace desiderio, e dico: «O Amore grande, chi può davvero comprenderti?».

Quanto più ti seguo, tanto più ti elevi; più ci si sforza di pensare a te, più grande diventi; solo chi sa di non comprenderti, ti comprende davvero.

📚 Commento

Questo sonetto è il vertice mistico dell'opera di Ortensia di Guglielmo, e forse il più sorprendente per modernità di linguaggio spirituale. L'io poetico si lancia nell'impresa di "alzare le penne dell'intelletto" sopra se stesso: immagine che richiama le ali dell'anima platonica e le ascensioni dantesche. Il fine è contemplare il mistero della Croce, non tanto nelle sofferenze fisiche, ma nel loro senso più profondo: il figlio di Dio, pur offeso, venne a chiedere pace e restò fra gli uomini legato da un vincolo d'amore, fino alla morte redentrice.

La docta ignorantia

La seconda parte del sonetto rovescia la tensione ascensionale: il desiderio, audace, viene vinto dall'immensità del mistero, e l'anima "ripiega le ali". Non è sconfitta, ma resa contemplativa: riconoscere il limite dell'intelletto è già parte della sapienza. La chiusa formula un vero paradosso mistico: più si cerca l'Amore divino, più Egli si sottrae; più lo si pensa, più cresce; e solo chi ammette di non comprenderlo, lo comprende davvero. È la dottrina medievale della docta ignorantia: la verità divina è tanto più conoscibile quanto più sfugge, e la fede si nutre di consapevole limite.

Dio è sempre oltre

Ortensia si colloca così nella grande linea della mistica cristiana: Agostino, che affermava che "se lo comprendi, non è Dio"; Dionigi l'Areopagita, con la sua "teologia negativa"; Gregorio di Nissa, che parlava dell'ascesa infinita; e, più tardi, Nicola Cusano, con la sua "sapienza del non sapere". Ma il suo verso finale condensa in una formula poetica ciò che i trattati esprimevano con lunghi ragionamenti.

La forza del testo sta nella sua duplice tensione: da un lato, la volontà ardente di elevarsi, con le ali del pensiero; dall'altro, la coscienza umile che l'amore divino non può essere contenuto né spiegato. È proprio in questa oscillazione, in questo "ripiegare le ali" pur senza cessare di desiderare il volo, che il sonetto trova il suo sigillo teologico e lirico di percorso interiore compiuto nell'accettazione del limite e nella glorificazione dell'Inconoscibile.

🔎 Note testuali

(Ortensia di Guglielmo – Vorrei talhor dell'intelletto mio)

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LIVIA DEL CHIAVELLO Veggio di sangue uman tutte le strade d'Italia piene il qual per tutto corre; e disdegnoso e reo Marte discorre, lance porgendo ognor, saette e spade; quindi convien che in lungo esilio vade fuggendo Astrea con le compagne a porre l'albergo; onde al gran mal nulla soccorre, e l'onor prisco e l'ornamento cade. Ma se desìo di vera gloria accende l'italico valor, rivolga l'arme contra colui che 'l Cristianesmo sface. Contra se stesso ognun più tosto s'arme; perchè quel Dio che in su la Croce pende, Dio di guerra non è, ma Dio di pace. * * * Rivolgo gl'occhi spesse volte in alto, A mirar l'ornamento delle stelle; E veggio cose sì leggiadre, e belle, Che per novo stupor divengo smalto. Indi qua giù velocemente salto, E scelgo le più degne, e veggio, ch'elle Non son lor pari; ond'io bramando quelle, Torno di novo al Ciel con leggier salto. Ma qui fatto più audace il gran desio, Ch'entro m'accende, alteramente poggia A Dio, ed altro pensiero non m'ingombra. Poi grido al fin: se tal bellezza alloggia Nel Cielo, or qual sarà quella di Dio, Appresso al qual è questo Cielo un'ombra?

(Livia del Chiavello)
Veggio di sangue uman tutte le strade
d'Italia piene il qual per tutto corre;
e disdegnoso e reo Marte discorre,
lance porgendo ognor, saette e spade;

quindi convien che in lungo esilio vade
fuggendo Astrea con le compagne a porre
l'albergo; onde al gran mal nulla soccorre,
e l'onor prisco e l'ornamento cade.

Ma se desìo di vera gloria accende
l'italico valor, rivolga l'arme
contra colui che 'l Cristianesmo sface.

Contra se stesso ognun più tosto s'arme;
perchè quel Dio che in su la Croce pende,
Dio di guerra non è, ma Dio di pace.
--
(Tratto da: Jolanda de Blasi, Antologia delle scrittrici italiane, 1930)

🖋 Parafrasi

Vedo le strade d'Italia traboccanti del sangue degli uomini, che scorre dappertutto; e Marte (il dio della guerra), crudele e colpevole, percorrere il paese, offrendo sempre nuove lance, frecce e spade.

Così accade che Astrea (la dea della giustizia) debba fuggire in lungo esilio, insieme alle sue compagne, e porre altrove la propria dimora; ma ciò non porta alcun rimedio al gran male presente, mentre l'antico onore e il decoro della patria decadono.

Se però un autentico desiderio di gloria accendesse il valore degli Italiani, allora costoro dovrebbero volgere le armi contro colui che distrugge il Cristianesimo, anziché combattersi l'un l'altro; perché quel Dio che pende sulla Croce non è un Dio di guerra, ma un Dio di pace.

📚 Commento

Questo sonetto è un lamento civile e insieme una requisitoria morale. Livia del Chiavello apre con un'immagine apocalittica: l'Italia intera insanguinata dalle lotte fratricide. La figura di Marte, "disdegnoso e reo", attraversa le strade come un idolo pagano, e simboleggia la furia cieca che domina la vita pubblica. A questa scena si contrappone subito la fuga di Astrea, la Giustizia divina: la sua partenza è segno che il mondo umano ha perduto il fondamento stesso dell'ordine e che, insieme ad esso, cadono l'antico onore e il decoro della patria.

Dio di pace

Il sonetto però non si ferma alla denuncia: nelle due terzine, l'autrice volge lo sguardo a una possibile redenzione. Gli Italiani, se ancora animati da autentico valore, dovrebbero armarsi non gli uni contro gli altri, ma contro il vero nemico della fede, colui che distrugge il Cristianesimo. È un appello che riecheggia le paure del tempo, segnato da minacce esterne e da una profonda corruzione interna. La chiusa è memorabile per semplicità e forza: il Dio crocifisso non è Dio di guerra, ma Dio di pace. In questo contrasto radicale tra Marte e Cristo si concentra la visione teologica e civile del sonetto.

Livia appare qui come poetessa della coscienza e della denuncia. La sua voce non indulge alla contemplazione mistica né alla supplica personale, ma assume il tono severo della condanna pubblica e dell'appello alla responsabilità collettiva. È un testo che ha quasi la gravità di un'orazione civile e che, pur provenendo da una donna in una città di provincia, tocca temi universali di pace, giustizia e dignità nazionale.

🔎 Note testuali

(Livia del Chiavello – Veggio di sangue uman tutte le strade)

📌 Cristianesimo e guerra

Nel suo sonetto, Livia del Chiavello formula una riflessione profonda e perentoria sul rapporto tra cristianesimo e violenza bellica. Alla rappresentazione tragica dell'Italia dilaniata da conflitti fratricidi, fa seguire una denuncia chiara e inequivocabile: Cristo, il Dio che pende dalla Croce, non è un dio di guerra, ma di pace.

Perché quel Dio che in su la Croce pende,
Dio di guerra non è, ma Dio di pace.

Questa presa di posizione – radicale nella sua semplicità – si inserisce in un contesto storico e teologico complesso, in cui la dottrina cristiana ha oscillato, nei secoli, tra l'intransigente rifiuto della violenza e un progressivo accomodamento alla legittimazione della guerra, fino alla sua promozione attiva in nome della fede (si pensi alle Crociate).

Le origini cristiane: rifiuto assoluto

Nelle prime comunità cristiane, in epoca apostolica e subapostolica, l'adesione alla fede implicava spesso l'abbandono della carriera militare. La figura di Cristo crocifisso, mite e sofferente, il precetto della non violenza ("Ma io vi dico: Non resistere al malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l'altra", Matteo 5:39) e l'ideale della pace erano considerati inconciliabili con la guerra. Origene, ad esempio, nel Contra Celsum, afferma che i cristiani "combattono con la preghiera, non con la spada".

La svolta costantiniana e il pensiero dei Padri

Con l'editto di Milano (313) e l'avvento della Chiesa imperiale, si apre una nuova fase: l'autorità politica e quella religiosa si intrecciano, e la questione della "guerra giusta" entra nel pensiero teologico.

Il Medioevo e la giustificazione dottrinale

Nel pensiero scolastico, Tommaso d'Aquino sistematizza la teoria agostiniana nel De Veritate e nella Summa Theologiae (II-II, q. 40): la guerra può essere giusta se:

  1. indetta da un'autorità legittima;
  2. per una causa giusta (restituire un diritto, punire un torto);
  3. con retta intenzione (non per odio, ma per amore del bene comune).

Ma proprio da questa dottrina scaturisce una deriva teologico-politica: se il fine è il bene della fede, e se il Papa è l'autorità suprema, la guerra può diventare "santa". Così nascono le Crociate, le guerre contro gli eretici (Albigesi, Hussiti), le missioni armate.

La voce di Livia: un ritorno al Vangelo

In questo contesto, il verso finale di Livia assume un valore sorprendente. Con una lucidità che anticipa, per certi versi, la teologia della pace del Novecento (da Jacques Maritain a Giovanni XXIII), la poetessa smaschera l'abuso della figura di Cristo come giustificatore della guerra.

Ella ritorna non alla teologia sistematica, ma al dato evangelico originario: Cristo non fu condottiero, né legislatore, ma vittima. Non armò discepoli, ma si lasciò uccidere. La croce non è una spada rovesciata, è l'antitesi della guerra.

In tal senso, l'autrice riattualizza – in volgare poetico – una teologia minoritaria e radicale, più vicina a Francesco d'Assisi che a Tommaso d'Aquino, e più a Bartolomé de Las Casas (la difesa degli oppressi) che a Bonifacio VIII.

In ultima sintesi, il suo sonetto non è solo poesia civile: è poesia dottrinale e profetica, che denuncia la contraddizione tra il Vangelo della pace e la prassi storica della Chiesa armata. In tempi segnati da guerre intestine e da violenze religiose, questa voce femminile si leva, limpida, a ricordare l'essenza pacificatrice del cristianesimo: una verità tanto antica, quanto troppo spesso dimenticata.

📜 Per una migliore lettura dei versi, ruota lo schermo.

(Livia del Chiavello)
Rivolgo gl'occhi spesse volte in alto,
A mirar l'ornamento delle stelle;
E veggio cose sì leggiadre, e belle,
Che per novo stupor divengo smalto.

Indi qua giù velocemente salto,
E scelgo le più degne, e veggio, ch'elle
Non son lor pari; ond'io bramando quelle,
Torno di novo al Ciel con leggier salto.

Ma qui fatto più audace il gran desio,
Ch'entro m'accende, alteramente poggia
A Dio, ed altro pensiero non m'ingombra.

Poi grido al fin: se tal bellezza alloggia
Nel Cielo, or qual sarà quella di Dio,
Appresso al qual è questo Cielo un'ombra?
--
(Tratto da: Luisa Bergalli, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici, 1726)

🖋 Parafrasi

Innalzo di frequente lo sguardo al firmamento, per contemplare lo splendore delle stelle, e vedo realtà così armoniose e incantevoli che, presa da novello stupore, rimango irrigidita, quasi smalto.

Poi, torno rapida a guardar la terra, e scelgo le più nobili cose che vi siano; ma vedo che non son pari alle stelle, e perciò, desiderando quelle, al cielo ancora torno, con un salto lieve.

È a questo punto, che il grande desiderio che in me arde si fa più audace, e su Dio si posa fiero, senza che lo distragga altro pensiero.

E infine esclamo: se tanta bellezza abita già nel cielo, quale sarà allora la bellezza di Dio, al cospetto del quale non è che ombra questo stesso cielo?

📚 Commento

Il sonetto di Livia del Chiavello si impone per la limpidezza del disegno e la forza visionaria che traduce, con rara eleganza, un vero e proprio itinerarium mentis ad Deum. La struttura del testo è rigorosamente ascensionale: dalla contemplazione del cielo stellato alla constatazione della pochezza terrena, fino all'audace slancio mistico verso Dio. È un movimento tripartito che ricalca modelli agostiniani e neoplatonici, ma che trova una formulazione poetica originale e sorprendentemente efficace.

Divengo smalto

Il primo momento è dominato dallo stupore: l'ornamento delle stelle immobilizza la poetessa in una sorta di rapimento estatico, che lei descrive con l'espressione rara e potente "divengo smalto". Qui il corpo non è negato, ma trasfigurato: lo sguardo diventa esperienza mistica, la meraviglia paralizza e insieme illumina, come in una epifania. Livia non contempla solo il bello, ma sperimenta la forza trasformante del bello, che pietrifica e accende.

Il leggier salto

Segue il ritorno sulla terra. Il "salto" tra cielo e terra è duplice: fisico e mentale, poetico e spirituale. Lo sguardo si abbassa, cerca ciò che vi è di più degno, ma ne constata l'inadeguatezza: nessuna bellezza mondana può reggere il confronto con quella celeste. Perciò, l'anima compie un moto di ritorno verso l'alto, un "leggier salto" che è insieme desiderio, grazia e leggerezza spirituale. È significativo che il moto ascensionale venga descritto come "leggier": non uno sforzo titanico, ma una grazia che innalza senza fatica, quasi preludio di beatitudine. Qui la poetessa si mostra fedele alla tradizione platonico-cristiana per cui la bellezza sensibile non è illusione, ma segno che rimanda ad altro, trampolino verso l'invisibile.

Il gran desio

Il culmine del sonetto è nella terza parte: il "gran desio" si fa più audace, non si accontenta più delle creature ma si posa direttamente su Dio. Questo è il passaggio decisivo, l'attimo in cui la contemplazione estetica diventa atto teologico. L'anima si libera di ogni distrazione, poggia "alteramente" su Dio: un termine che evoca fermezza e fierezza, quasi un possesso, pur nella consapevolezza di non poter contenere l'Infinito.

È questo Cielo un'ombra

La chiusa è una delle più alte di tutta la raccolta fabrianese: "se tal bellezza alloggia / Nel cielo, or qual sarà quella di Dio, / Appresso al qual è questo Cielo un'ombra?". Qui Livia formula, con la semplicità di un lampo, il cuore della tradizione mistica occidentale: Dio è così al di là della creazione che perfino il cielo, per l'uomo misura del sublime, non è che ombra davanti a Lui. È la stessa intuizione che attraversa Agostino, Dionigi l'Areopagita, Gregorio di Nissa, Nicola Cusano: la bellezza creata è vera, ma non è che riflesso di un Bene incomparabile.

Teologia poetica

Il valore di questo sonetto non sta solo nella dottrina che sottintende, ma nella qualità poetica con cui Livia la rende viva. Le immagini dello stupore, dello smalto, del salto, non sono meri ornamenti retorici: traducono l'esperienza concreta di un'anima che vede, si sorprende, desidera, e infine grida. La voce non resta nel registro contemplativo, ma si accende in una esclamazione che è insieme preghiera e visione.

In questo componimento si rivela la singolarità di Livia del Chiavello: non teologa speculativa come Leonora, non combattente profetica come Ortensia, ma poetessa contemplativa, capace di trasformare l'esperienza estetica in teologia poetica. La sua poesia è un esercizio di "estetica della trascendenza": dalla bellezza visibile al mistero invisibile, dall'ornamento delle stelle alla bellezza ineffabile di Dio. È una voce femminile che sa farsi universale, coniugando rigore concettuale e grazia lirica.

🔎 Note testuali

(Livia del Chiavello – Rivolgo gl'occhi spesse volte in alto)

📌 Teologia apofatica

L'affermazione "Dio è oltre ogni bellezza creata" riassume la posizione apofatica nel senso che le qualità di bellezza, saggezza, bontà che attribuiamo alle cose terrene non possono che essere delle ombre e non la pienezza del vero Essere divino.

Il principio cardine della teologia apofatica (anche detta "teologia negativa") è che Dio trascende ogni concetto umano e ogni realtà creata, rendendo impossibile definirlo adeguatamente con affermazioni positive. Piuttosto che affermare cosa Dio "è", si può solo dire cosa Egli "non è" (via negationis), perché ogni bellezza, attributo o concetto che usiamo per descrivere le creature non può appropriatamente applicarsi alla Divinità, che è radicalmente altra.

Negazione come metodo

L'apòfasi, ovvero la negazione, è il metodo principale per avvicinarsi al mistero di Dio. Esempi di approccio apofatico sono le affermazioni che "Dio non è né questo né quello", "Dio non è un essere temporale", "Dio non è finito né limitato", "Dio non è conosciuto dalla ragione umana", "Dio non è mutevole né composto", "Dio non è luce nel senso umano del termine", "Non si può parlare realmente di Dio, solo tacere davanti al suo mistero" (l'ineffabilità di Dio sottolinea il silenzio come forma di conoscenza): poiché tutte queste sono categorie umane che non possono applicarsi a Dio. In sintesi, la teologia apofatica è un modo di pensare e parlare di Dio che enfatizza la sua trascendenza e l'inadeguatezza di ogni tentativo di definirlo con concetti e linguaggio umani.

Origini e sviluppo

Le origini della teologia apofatica risalgono al pensiero greco antico, in particolare alla scuola eleatica con Parmenide, che evidenziò l'essere come indefinibile e privo di contenuti sostanziali, e a Filone di Alessandria, il quale sottolineava l'ineffabilità di Dio. La prima formulazione sistematica di questo approccio si trova però in Plotino (205-270 d.C.), che affermò che di Dio si può parlare solo in termini di ciò che Egli non è, non di ciò che è, ponendo così le basi della via negativa.

Successivamente, Dionigi l'Areopagita (o Pseudo-Dionigi) codificò e sviluppò la teologia apofatica, influenzando profondamente la tradizione cristiana con la sua idea che Dio trascende ogni definizione positiva.

Gregorio di Nissa fu uno dei primi Padri della Chiesa a utilizzare un approccio apofatico nelle sue riflessioni sulla trascendenza di Dio.

Teologi medievali come Giovanni Scoto Eriugena, che tradusse e commentò Dionigi, e più tardi Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, pur orientandosi soprattutto alla teologia affermativa (catafatica), furono influenzati dalla discussione dottrinale.

Meister Eckhart, nel Medioevo, approfondì il tema dell'ineffabilità e del mistero divino nella sua teologia mistica., arrivando a sostenere che "Dio è qualcosa che è necessariamente al di sopra dell'essere. Ciò che ha essere, tempo e luogo, non ha contatto con Dio, che è al di sopra" e "Dio non è né essere né bontà".

Polifonia intellettuale

Se "ascoltiamo" insieme i sonetti di Leonora della Genga, Ortensia di Guglielmo e Livia del Chiavello, ciò che emerge non è soltanto la varietà dei temi o delle immagini, ma una sorta di polifonia spirituale e intellettuale. Tre voci femminili del Trecento che, pur immerse nello stesso humus culturale, sanno declinare la poesia come strumento di teologia, di battaglia morale o di contemplazione.

Leonora della Genga si colloca più vicina alla linea della poetica teologica. La sua parola è misurata, sorvegliata, capace di trattare temi altissimi – la creazione, l'Incarnazione, la Redenzione – con uno stile che riecheggia il tono devoto dello Stilnovo ma si apre a una densità cristologica non comune. Nei suoi sonetti si respira un'aria quasi scolastica, ma temperata dalla grazia lirica: Dio non è concetto, ma presenza da cantare. L'elegia funebre per Ortensia è forse il suo apice: in essa, l'immaginario mitologico del Parnaso e di Aganippe si piega a una liturgia del lutto dove il divino e il poetico si intrecciano in un'unica sacralità. Leonora è, in fondo, la teologa che sa farsi poeta: il suo lessico è quello della dottrina, ma la sua voce si veste di affettività e misura.

Ortensia di Guglielmo, al contrario, è voce irruenta, quasi mistica combattente. Nei suoi versi troviamo lo slancio di chi non accetta i confini che le sono imposti: non quelli sociali, che la vorrebbero relegata all'ago e al fuso; non quelli interiori, che oppongono speranza e timore in un dramma psicologico senza tregua; non quelli politici, che vedono la Chiesa umiliata ad Avignone; e nemmeno quelli metafisici, poiché alla fine osa interrogare l'Amore divino nella sua incomprensibilità. Ortensia è sempre dialettica, sempre in tensione: rivolge la parola a un "Signore" che è forse Petrarca, ma anche al Papa, a Cristo, a Dio stesso. Il suo registro è spesso interrogativo, supplice e polemico insieme. È la più inquieta e la più diretta: le sue poesie non descrivono, ma interpellano, come se la parola poetica fosse sempre chiamata a una responsabilità etica e profetica.

Livia del Chiavello, infine, appare come la contemplativa civile. I suoi due sonetti superstiti bastano a delineare una fisionomia distinta: da un lato il lamento pacifista, che condanna l'Italia dilaniata dal sangue fraterno e oppone il Dio crocifisso al Marte idolatrico; dall'altro, la visione contemplativa che, partendo dallo stupore per le stelle, approda alla coscienza che Dio solo è Bellezza assoluta, e che il cielo stesso non è che un'ombra di Lui. Livia sa essere severa e politica nel denunciare la follia delle guerre intestine, ma sa anche farsi mistica, platonica quasi, nel trasformare l'esperienza estetica in ascesa teologica. È la più filosofica, la più agostiniana: la sua poesia è un itinerario che passa dal sensibile all'Invisibile, dall'ordine cosmico al silenzio dell'Intelletto.

Volendo arrischiare una sintesi, potremmo dire che Leonora rappresenta la teologia lirica, Ortensia la profezia combattiva, Livia la contemplazione filosofica. E tuttavia, nonostante le differenze, le tre condividono un tratto comune: tutte trasformano la poesia in un gesto alto, che non si limita a ornare, ma vuole incidere sulla realtà – che sia per difendere la dignità femminile, per richiamare il papa al suo dovere, o per denunciare la follia delle guerre. La loro parola è, in modi diversi, profezia.

In questo sta la loro importanza: nella consapevolezza che la poesia non è gioco, ma visione, impegno, Grazia.

Fonti dei testi

[ddf, viii-2025]