
he cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? «Dimenticarli», risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. «Dimenticarli», conferma l'Etica. «Via sulle tombe!», esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l'uomo dimentica. ✦
È difficile incontrare un pensiero così unitario e insieme così fecondamente molteplice come quello di Benedetto Croce (1866–1952). La sua forza sta nella coerenza dell'interiorità: ogni sua riflessione – sull'arte, sulla storia, sulla morale, sulla politica – nasce da un medesimo centro vitale, l'idea che lo spirito umano sia libertà in atto, creazione incessante di senso. Da qui, deriva la straordinaria versatilità della sua filosofia: non un sistema chiuso, ma un metodo di pensiero, una forma del giudizio che si applica a tutto ciò che vive. Croce è attuale perché il suo rigore non è accademico, ma esistenziale: egli pensa per chiarire, non per dominare; per capire, non per convertire. E in questo equilibrio di lucidità e pietà, la sua intelligenza rimane uno dei più alti strumenti di libertà mai offerti al pensiero europeo.
Il testo "I trapassati", che riportiamo di seguito per intero, è tratto dai Frammenti di etica (era già apparso nella rivista La Critica nel 1915) ed è uno dei luoghi più intensi e profondi del suo pensiero, dove si intrecciano riflessione morale, consapevolezza storica, psicologia del dolore, antropologia culturale e un'elegante vena letteraria. Attraverso il tema del distacco dai morti, Croce ci invita a un esercizio di verità radicale: affrontare la morte non solo come evento biologico o lutto individuale, ma come momento etico e trasformazione spirituale.
Croce esamina qui un tema (il rapporto con gli "estinti") che, a prima vista, appartiene più alla sfera affettiva che a quella etica. Ma, come sempre in lui, l'affettività è il punto d'ingresso verso una più alta razionalità dello spirito. Lungi dal predicare un'etica del cinismo o dell'oblìo, egli invita a riconoscere che il dimenticare i morti non è un tradimento, ma un atto vitale e morale: la vita continua solo perché dimentica, e la dimenticanza, lungi dall'essere un difetto, è la condizione del rinnovarsi del reale.
La riflessione, che a tratti tocca il tono elegiaco di un dialogo silenzioso con i defunti, svela in realtà il carattere dialettico dell'esistenza: vivere è morire, e morire è trasformarsi in altra vita.
Il frammento si apre con una domanda tanto semplice quanto vertiginosa: che cosa dobbiamo fare dei morti?
Croce rifiuta la risposta sentimentale o religiosa e afferma con rigore: "Dimenticarli". La parola, brutale nella sua semplicità, è immediatamente temperata da un tono analitico: non è il tempo che cancella, ma noi stessi. La "saggezza della vita" non è dunque un processo naturale o esterno: è una decisione morale dello spirito.
La tesi centrale del brano è insieme semplice e scandalosa: dimenticare i morti è un dovere etico. Non si tratta però, sia chiaro, di una dimenticanza fredda o cinica, bensì di un lento e necessario congedo, che nasce dall'amore stesso.
Croce rovescia l'immagine romantica del tempo come balsamo del dolore (quella che da Orazio a Leopardi, passando per Proust, aveva fondato l'idea del tempo come potenza demiurgica o distruttrice). Egli scrive: "Troppe cose buone, e troppe ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste".
Il tempo, dunque, non opera: è l'uomo a operare. Non vi è oblìo senza volontà d'oblìo. Dimenticare è un atto, non una deriva. Qui Croce, pur senza citarlo, si pone accanto a Nietzsche: come il filosofo di Sull'utilità e il danno della storia per la vita, egli riconosce che l'oblìo è una funzione vitale, un'energia creatrice che permette di non restare prigionieri del passato – pur se la traiettoria dissolutoria dei due è divergente: la dissoluzione nietzscheana è nichilistica e prometeica (la volontà di potenza, attraverso l'oblìo attivo, crea i propri valori in rottura col passato); mentre la dissoluzione crociana è immanentistica e storica (l'individuo si risolve pacificamente nella continuità dello spirito, in un flusso che integra e rivitalizza costantemente il passato).
Croce osserva il paradosso umano: tutto sembra contraddire quell'oblìo necessario. I monumenti, le biografie, i riti dei defunti – quale il "giorno dei morti" – appaiono come sforzi per trattenere l'immagine degli scomparsi. Ma in realtà, dice Croce, questi non sono atti, bensì espressioni.
L'uomo non agisce per conservare, ma esprime per lenire. La costruzione delle tombe, la celebrazione dei riti, la scrittura dei ricordi sono linguaggi simbolici, sfoghi del dolore che servono, in realtà, a oggettivarlo.
Questo è un punto cruciale nel sistema crociano: la distinzione tra l'azione pratica e l'espressione estetica. Il dolore, espresso, si trasforma in immagine; e come immagine, cessa di essere puro pathos, diventa momento dello spirito.
In tal modo, Croce si allontana tanto dalla psicologia consolatoria quanto dal sentimentalismo religioso: il culto dei morti è una forma di catarsi estetica, non un gesto d'immortalità; il dolore espresso è già, in sé, un inizio di guarigione. In ciò, egli è parente di Eschilo e di Freud: entrambi sapevano che nominare il dolore è già comprenderlo.
Croce scende nel cuore del pathos umano e descrive la fase acuta del lutto come "follia o quasi", evocando il mito di Giovanna la pazza: la regina che, incapace di accettare la morte del marito, ne custodiva il corpo senza vita.
È un momento di universale identificazione: "L'amore e il dolore li accomuna, e tutti piangono a un modo". La compassione crociana è qui profonda ma disciplinata: il dolore, nel suo eccesso, tende alla follia, e solo l'espressione lo salva, rendendolo oggettivo.
L'"oggettivazione" del dolore è, per Croce, l'atto redentivo dell'arte e, più in generale, della civiltà: ciò che nel dolore è pura passione viene trasfigurato in significato. La memoria, dunque, si sublima: e nel gesto del ricordare artisticamente o simbolicamente, si comincia già a dimenticare.
In questo punto, Croce incontra il Leopardi dello Zibaldone e dei Canti: il dolore, pur riconosciuto nella sua verità, diventa fecondo quando si fa forma, poesia, linguaggio. La "follia" del dolore diventa "saggezza della vita", come nell'Infinito, dove la malinconia si trasforma in visione.
Non solo i riti del dolore, ma anche la prosecuzione dell'opera dei morti è una forma di oblìo.
In apparenza, mantenere vive le costruzioni o i pensieri degli estinti è un modo per perpetuarli. Ma nel farlo, li superiamo, li oltrepassiamo, li trasformiamo. La vita è creazione, non ripetizione.
"Se li andavamo già dimenticando col celebrarli, ora li dimentichiamo anche praticamente". – La frase è di un realismo spietato, ma anche liberatorio. Ogni generazione, nell'agire, seppellisce spiritualmente la precedente: non per infedeltà, ma per necessità.
Il tema richiama l'Überwindung hegeliana (il superamento dialettico): ogni momento dello spirito si conserva negandosi, ogni vita autentica è un trapasso.
In questo senso, Croce rifiuta la tentazione romantica dell'eterno ritorno o della memoria assoluta (che troviamo, per esempio, in Proust o in Poe). La fedeltà vera ai morti consiste nel continuare la vita – e perciò nel dimenticarli.
"Noi dunque, con la nostra vita ulteriore, seppelliamo per la seconda volta spiritualmente i nostri morti".
Ma la crudeltà apparente è solo un'illusione. La prima sepoltura riguardava la carne, la seconda riguarda le "vane immaginazioni" con cui proiettiamo nei defunti la nostra paura della morte.
Croce qui attinge a una serenità quasi stoica, ma illuminata di pietà: i morti non vogliono la nostra fedeltà sentimentale, bensì la nostra vita attiva.
Il vero amore per i trapassati è non turbare la loro assenza, non trasformarli in "larve infeste", ma continuarne l'opera.
In questo passo, il filosofo anticipa, con tono quasi mistico, una concezione della vita come processo impersonale dello spirito: ciò che sopravvive di noi non è la nostra individualità, ma il lavoro, l'affetto, l'opera, cioè le forme attraverso cui lo spirito universale si rinnova.
"La nostra individualità è una parvenza fissata dal nome": è questa una delle frasi più radicali dell'intera filosofia crociana. L'"io" empirico è un accidente; ciò che permane è la vita dello spirito, che si trasforma incessantemente.
Parafrasando: la nostra vita tende naturalmente alla morte dell'individualità; il lavoro stesso è una forma di morte, perché l'opera, una volta compiuta, si separa da noi e diventa autonoma; e questa stessa morte dell'individualità, questo farsi oltrepassare dall'opera, è la vera gloria, la sola sopravvivenza autentica – ben diversa dalla fama che si limita a far rumore intorno ai titoli.
Per il senso comune, la gloria è la permanenza del nome: l'individuo che resta ricordato. Per Croce, invece, la gloria autentica è proprio la dissoluzione del nome, la sopravvivenza dell'opera quando l'autore non conta più.
L'artista, lo scienziato, l'uomo giusto o buono "muoiono nell'opera" nel senso che l'opera – artistica, morale o civile – li trascende, si stacca da loro, vive di vita propria. È appunto questo distacco, questa "morte del sé", a segnare la loro vera immortalità.
La "gloria mondana" riguarda il ricordo dei nomi; la "gloria vera" riguarda la continuità dello spirito nella realtà vivente.
Il senso complessivo è che la vera gloria consiste proprio in questo morire a se stessi, nel lasciare che l'opera (intesa in senso largo: affetto, pensiero, costruzione morale) viva senza più bisogno del nostro nome.
La gloria non è l'eco che resta del nostro nome, ma la vita che continua senza di noi: una sorta di santità laica; non l'immortalità dell'io, ma la continuità dello spirito.
E quell'oblìo voluto – quell'"etica del distacco" – è la forma più alta di fedeltà alla vita.
"Gloria... opere... istituzioni": ma che forse quella crociana non sia un'etica per pochi? Per uomini illustri, per eroi, per edificatori di poesia o di arte, per fondatori di città o nazioni?
No! Il ragionamento vale per tutti gli umani. Non è riservato agli "uomini illustri", ai fondatori di sistemi, agli eroi civili o intellettuali. Croce lo formula come riflessione universale sull'umano, sull'essere mortali e, proprio per questo, sull'essere etici.
Nel frammento, Croce non parla solo di "grandi opere", né celebra la gloria dei nomi che restano nella storia. Anzi, egli demolisce il culto delle parvenze, l'illusione della memoria monumentale, e sposta l'attenzione sulla sopravvivenza reale: quella che si compie nelle azioni vive, nei valori trasmessi, nella trasformazione silenziosa e impersonale della realtà.
Anche il genitore che ha amato con discrezione, anche l'operaio che ha dato il meglio di sé nel proprio lavoro, anche l'amica che ha alleviato il dolore di qualcuno: tutti costoro "vivono ancora" – ma non nel senso di essere ricordati per nome, quanto nel bene che hanno messo nel mondo, e che ora ha preso altre forme.
La loro immortalità è etica, non anagrafica. È una sopravvivenza che non ha bisogno di essere riconosciuta, perché è reale nella misura in cui ha modificato la realtà.
Nel cuore del brano, ricordiamo questo passaggio chiave:
Noi realmente non siamo altro che questo desiderio e questa opera, e ciò solo vogliamo immortale di noi.
Qui Croce universalizza la condizione umana: ognuno di noi, che sia filosofo, genitore, artigiano, educatore, amico, vicino, ha una vita che trova senso nella relazione e nell'opera, cioè in ciò che lascia, senza pretendere che venga celebrato.
E ancora:
La nostra individualità è una parvenza fissata dal nome, cioè da una convenzione [...] laddove gli affetti e le opere persistono come persiste la realtà.
L'individualità – e quindi la fama, il ricordo nominale – è una costruzione sociale, contingente. Ma l'efficacia etica e spirituale di una vita può essere immensa anche se senza nome. L'importante è che qualcosa continui, che si trasformi in bene reale.
Croce, da filosofo idealista, e da liberale, non cerca consolazioni religiose: non promette un aldilà, né una gloria eterna. Eppure, propone una forma altissima di senso, accessibile a chiunque: l'essere come parte di un processo etico e spirituale più grande di sé, in cui ciò che abbiamo dato continua a vivere, anche se noi non ci siamo più.
Non si tratta di essere ricordati, ma di essere stati necessari, anche solo per un gesto, per una parola, per una scintilla.
Croce si muove dentro una concezione relazionale dell'identità: noi non siamo "io", ma l'intreccio di affetti e opere che si muovono oltre noi. Questo vale per chi ha costruito cattedrali o nazioni, ma anche per chi ha costruito pazienza, affetto, prossimità.
La crescita dei figli è forse uno degli esempi più alti e concreti di ciò che il filosofo napoletano intenda quando parla di far "risplendere" i nostri cari nell'opera che evolve, anche senza il loro nome. Si tratta di una forma profondamente etica e silenziosa di trasmissione e trasformazione, che tocca il cuore del pensiero crociano: l'opera che continua, si rinnova e oltrepassa la sua origine.
Quando un genitore educa, ama, cura e forma un figlio, non lascia dietro di sé una copia, ma qualcosa di molto più misterioso e vitale: una persona nuova, che prende forme proprie, fa scelte autonome, porta avanti (forse) ciò che il genitore ha vissuto o creduto – ma in modo trasformato, personale, imprevedibile.
In questo senso, con la terminologia crociana stessa:
Un figlio che diventa uomo o donna libera, capace di pensare, amare e creare, porta con sé i gesti, le parole, i valori dei genitori – ma non li conserva come reliquie: li trasforma.
Questo non è oblìo: è superamento affettuoso. Non c'è tradimento nel crescere oltre ciò che i nostri genitori furono – c'è anzi fedeltà al senso più profondo del loro amore: che noi fossimo liberi, autonomi, vivi.
Nel lasciare che il figlio cresca, nel non trattenerlo a sé, il genitore compie proprio quel gesto etico di cui parla il filosofo: si spoglia dell'illusione del "nome", del controllo, della riconoscenza eterna, per entrare nella dimensione più alta dell'amore: quella in cui non si chiede nulla in cambio, ma si desidera solo che "l'opera continui".
La crescita dei figli è a nostro avviso una delle espressioni più profonde e quotidiane della filosofia crociana dell'etica del distacco. Una analogia che illumina il senso profondo del suo pensiero sul rapporto tra passato, presente e futuro, applicato a una delle esperienze umane più significative e universali. Non perché dimentichiamo chi ci ha cresciuti, ma perché lasciamo che vivano in ciò che noi diventiamo – anche senza il loro nome stampato addosso.
L'amore diventa, in termini crociani, forma dello spirito, non legame sentimentale: ciò che resta non è la relazione empirica, ma l'energia spirituale che essa ha generato.
È anche il paradosso dell'amore più grande: saper amare fino al punto di lasciar andare, e continuare a vivere in ciò che non si può più trattenere.
Perciò, il pensiero di Croce non è elitario: è profondamente umanista, ma nel senso esigente del termine. Non consola con l'illusione, ma dona senso nella verità. Nessuno è "piccolo" nella misura in cui ha generato bene, senso, crescita.
E non è per pochi: è per chiunque si chieda come si vive il dolore, che cosa resta di noi, come si onora chi ci ha lasciati, come si costruisce la continuità del bene. È una filosofia della trasformazione, della sobrietà spirituale, della grandezza quotidiana.
Anche chi non ha compiuto un'opera da tramandare – ma ha fatto il bene possibile, nel silenzio – ha già partecipato a quell'eternità reale che Croce chiama "nuova realtà".
Nella filosofia di Benedetto Croce, la vitalità e la spiritualità non sono prerogative esclusive degli eroi e delle figure illustri, ma sono presenti in ogni forma di vita, anche nella quotidianità delle persone comuni. La prospettiva crociana offre un quadro in cui il lascito non si misura in monumenti o grandi opere, ma nella qualità etica e nella concretezza degli atti quotidiani.
L'eredità delle persone ordinarie dimora nelle "pieghe" invisibili della storia, che sono la trama stessa della vita sociale e civile:
In conclusione, il lascito degli esseri umani ordinari, nella visione crociana, non ha bisogno di monumenti o riconoscimenti pubblici. È un lascito silenzioso e profondo, che si manifesta nel continuo fluire della vita spirituale.
Con il suo storicismo assoluto, Croce sostiene che ogni vita, per quanto "ordinaria", contribuisce al fiume della storia. La vera fedeltà, per tutti, consiste nel vivere appieno il presente, sapendo che anche l'atto più piccolo, se compiuto con spirito, nutre l'evoluzione della vita stessa.
In conclusione, "I trapassati" non è un inno al distacco, ma una professione di fede nella vita. Dimenticare non è un atto di freddezza, ma di amore spirituale. Chi vive, non deve conservare il passato come un feticcio, ma trasfigurarlo in vita nuova. La vera fedeltà al passato non si realizza nella sua conservazione museale o nella sua contemplazione nostalgica.
Nel dimenticare, non si nega ciò che è stato: si riconosce che l'amore, come ogni atto dello spirito, è produttivo solo se si rinnova. L'oblìo, dunque, è la forma più alta di fedeltà: come la natura, che ogni giorno cancella e rifà, o come l'arte, che trasfigura la materia bruta in una forma estetica irripetibile, così lo spirito umano deve trasfigurare il passato in una nuova espressione vitale.
Il testo di Croce è un invito austero a non idolatrare la memoria, ma a viverla come gesto etico di trasformazione. Solo nella misura in cui ci distacchiamo – senza rinnegare l'affetto – possiamo onorare i nostri morti. Non con le lacrime o i monumenti, ma con il lavoro, l'impegno, la continuità trasformativa dell'opera.
Così, nella sua apparente freddezza, questa etica del distacco è forse la forma più alta di amore: non trattenere nella nostra ombra chi ci ha lasciato, ma lasciare che egli risplenda nell'opera che evolve, anche senza il suo nome.
📌 IL TRAUMA FONDATIVO
Dietro la compostezza del pensiero, dietro l'apollinea chiarezza della prosa, si percepisce in Croce l'eco di una ferita giovanile non rimarginata, una ferita che lo costrinse molto presto a pensare il dolore non come accidente, ma come struttura della vita.
Quando, a diciassette anni, sopravvisse al terremoto di Casamìcciola del 28 luglio 1883, sull'isola d'Ischia, – che uccise i genitori e la sorella – fu sepolto per ore sotto le macerie.
Rimase vivo, ma quella sopravvivenza fu per lui, come scrisse più tardi, una "nascita seconda": la scoperta brutale della fragilità dell'esistenza e della solitudine irrimediabile dell'uomo.*
Il giovane Croce, che fino a quel momento aveva vissuto in un ambiente affettuoso, quasi patriarcale, dovette imparare a reggersi sulle proprie gambe.
Quell'esperienza non fu mai da lui tematizzata sentimentalmente, ma interiorizzata filosoficamente.
L'etica del distacco – la necessità di "dimenticare" gli estinti, di non farsi travolgere dal dolore, di lasciar vivere solo ciò che dello spirito può continuare – nasce anche da lì: dal bisogno di sopravvivere moralmente dopo una perdita totale.
Croce non ha mai parlato dei suoi genitori in forma diretta, ma il modo in cui qui tratta il tema dei morti lascia trasparire un'esperienza personale.
La sua voce resta ferma, ma sotto quella fermezza si coglie un dolore disciplinato, convertito in pensiero.
In poche righe – che sono, tra tutte, le più vibranti – l'autocontrollo si incrina. È come se, ad oltre trent'anni dai fatti, l'uomo avesse trovato il linguaggio giusto per dire il dolore – non più in forma di pianto, ma di sapienza.
È una delle rare volte in cui la sua prosa – solitamente tersa, aforistica, logica – si piega al ritmo dell'emozione: ogni inciso, ogni ripetizione ("sentire il tocco... vedere il lampo... morire coi nostri morti") è il riflesso di un ricordo che non vuole spegnersi, ma che egli controlla con pudore estremo. È un equilibrio difficilissimo: il lutto non negato, ma trasfigurato.
"L'uomo dimentica. Non perché il tempo cancella, ma perché egli vuole dimenticare".
Dietro questa frase, c'è la più difficile delle volontà: quella di vivere ancora.
👉 Un singolare destino personale ha accomunato la vita di Croce con quella di un altro noto storico, politico e antifascista meridionale della sua stessa epoca, Gaetano Salvemini (1873–1957).
Il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908 fu una delle catastrofi più devastanti della storia italiana: oltre 80.000 vittime in pochi minuti. Tra esse, quasi tutta la famiglia di Salvemini. Egli – che allora aveva 35 anni, docente di storia moderna a Firenze, socialista riformista, già impegnato nella battaglia per l'istruzione popolare – si trovava casualmente nel capoluogo toscano. A Messina, invece, erano rimasti la moglie Maria Minervini, i cinque figli (il maggiore di solo nove anni) e la sorella, che morirono tutti sotto le macerie della loro casa.
Dopo il terremoto, Salvemini si chiuse per mesi in un mutismo quasi totale. I suoi amici più vicini – da Gaetano De Sanctis a Giovanni Gentile – scrissero che "il dolore lo aveva piegato ma non distrutto". Egli stesso, anni dopo, dirà: "Non mi è rimasto più nulla da temere, perché nulla più mi può essere tolto".
In alcune lettere successive, accennò con pudore a quella visione: i corpi dei suoi cari mai più ritrovati, il paesaggio spettrale della città distrutta, il dolore che – come per Croce venticinque anni prima – segnò una svolta irreversibile nella sua vita interiore.
Da quella tragedia nacque, come spesso accade nei grandi spiriti, una conversione morale e politica. Abbandonò ogni residuo di astrattezza intellettuale e si dedicò con rigore quasi ascetico alla causa della giustizia civile e dell'educazione del popolo. Il suo socialismo si fece etico, non ideologico; la sua fede laica, profondamente solidale e antiretorica.
Il dolore, come per Croce, divenne la radice del suo pensiero morale.