Contro i santi di ferro

Umiltà e virtù imperfetta nel pensiero morale di Benedetto Croce

due frammenti che seguono – L'umiltà e Difesa della virtù imperfetta – compresi nel volume Frammenti di Etica del 1922, e poi in Etica e politica, appartengono alla stagione matura del pensiero di Benedetto Croce. Siamo negli anni della guerra e del primo dopoguerra, quando la riflessione morale del filosofo napoletano si libera definitivamente delle scorie metafisiche e si concentra sulla dinamica concreta della vita spirituale. ✦

Benedetto Croce (1866–1952) non intende mai la morale in termini di codice o di ascetismo, bensì come forza creatrice che nasce dal travaglio degli affetti e delle passioni. Niente purezza astratta, niente eroi d'acciaio, niente "io unitari" da custodire in cassaforte. La verità della morale è sempre universale, storica, vivente, mista, conflittuale, e l'unica virtù possibile è quella imperfetta, che conosce i limiti dell'uomo e li trasforma in energia.

Nei due brani che riportiamo per intero, accompagnandoli con parafrasi e commento nostri, si incontra l'intero Croce: il critico della metafisica dell'io; il nemico dell'ascetismo; lo psicologo acuto; il filosofo della storia; e, talvolta, il moralista ironico che non risparmia stilettate ai "rigoristi", ai quali sembra rivolgere un sorriso di quel tipo che colpisce più di tante invettive.

L'UMILTÀ*
Testo : 1/6


Quando la nostra vita sembra scorrere facile sulla guida del bene e venire attuando ciò che noi stimiamo doveroso e degno, è un gran tormento il dubbio che quella nostra virtú sia semplice conformità estrinseca e accidentale alla legge, prodotta o aiutata da concorso di casi favorevoli, senza vera garanzia nel nostro intimo carattere. Allora piú gravemente ci risuonano dentro le imprecazioni del poeta contro la «razza di Abele», o il sarcasmo del romanziere sulla «gran canaglia che è la gente onesta»; e si pensa con angoscia che, se noi fossimo posti in altre condizioni, esposti ad altri pericoli, forse non manterremmo la dignità presente e finiremmo col somigliare vergognosamente a coloro, dai quali ora ci discostiamo con disdegno o con orrore.
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* Benedetto Croce. L'umiltà. In: Etica e politica. Laterza, 1956, p. 104-106.

Quando sentiamo che la nostra vita procede con facilità lungo la direzione del bene, e ci pare di riuscire a realizzare ciò che giudichiamo doveroso e nobile, ci assale il tormento che questa nostra virtù non sia altro che un'adesione esteriore e accidentale alla norma, resa possibile o favorita da circostanze fortunate, e non sostenuta da una vera solidità del nostro carattere interiore. In quei momenti, rimbombano dentro di noi, con maggior forza, le invettive del poeta contro la "razza di Abele" e l'ironia del romanziere sulla "gran canaglia che è la gente onesta"; e pensiamo con angoscia che, se ci trovassimo in condizioni diverse, esposti a prove più dure o a pericoli maggiori, forse non sapremmo conservare la dignità che ora mostriamo, e finiremmo col rassomigliare, in modo vergognoso, proprio a coloro dai quali adesso ci teniamo lontani con disprezzo o con disgusto.

🔎 Croce mette il dito nella piaga dell'autocoscienza morale moderna: la paura di essere virtuosi solo per circostanza, e non per intima fibra. È il tema tipicamente borghese della psicologia del dovere: "se la mia vita fosse più dura, riuscirei ancora a comportarmi bene?". A questo dubbio, dice Croce, si sommano le invettive degli autori che ricordano quanto fragile sia la bontà umana.
Con due riferimenti letterari celebri (Baudelaire e Zola), egli vuole dire: la letteratura moderna ci offre mille specchi deformanti, dove la virtù sembra sempre sospetta, sempre potenzialmente falsa, e questo alimenta la nostra inquietudine.

💬Il poeta che impreca contro la "razza di Abele" è Charles Baudelaire, la cui celebre invettiva («Race d'Abel…») appartiene alla poesia Abél et Caïn, nella sezione Révolte dei Fleurs du Mal (1857). È uno dei testi più violenti e antitetici del poeta francese, dove si contrappone la razza sottomessa di Abele (simbolo di chi gode di privilegi e sicurezza) alla razza ribelle di Caino (simbolo di chi soffre e combatte). La citazione è richiamata da Croce per illustrare la tensione tra moralismo convenzionale e ribellione. Il testo si apre proprio così: «Race d'Abel, dors, bois et mange; / Dieu te sourit complaisamment». E continua con quel capovolgimento apocalittico che Croce conosceva perfettamente.
Abel et Caïn di Charles Baudelaire I. Race d'Abel, dors, bois et mange; Dieu te sourit complaisamment. Razza d'Abele, dormi, bevi e mangia; Come ti sorride compiaciuto Dio. Race de Caïn, dans la fange Rampe et meurs misérablement. Razza di Caino, striscia nel fango e muori miserabile. Race d'Abel, ton sacrifice Flatte le nez du Séraphin! Razza d'Abele, il tuo sacrificio accarezza il naso ai Serafini! Race de Caïn, ton supplice Aura-t-il jamais une fin? Razza di Caino, il tuo supplizio potrà avere mai fine? Race d'Abel, vois tes semailles Et ton bétail venir à bien; Razza d'Abele, guarda prosperare il tuo bestiame e i tuoi raccolti; Race de Caïn, tes entrailles Hurlent la faim comme un vieux chien. Razza di Caino, le tue viscere urlano di fame come un vecchio cane. Race d'Abel, chauffe ton ventre A ton foyer patriarcal; Razza d'Abele, scaldati il ventre al fuoco patriarcale; Race de Caïn, dans ton antre Tremble de froid, pauvre chacal! Razza di Caino, trema di freddo nel tuo antro, povero sciacallo! Race d'Abel, aime et pullule! Ton or fait aussi des petits. Razza d'Abele, ama e prolifica! Anche il tuo oro si moltiplica. Race de Caïn, cœur qui brûle, Prends garde à ces grands appétits. Razza di Caino, cuore che brucia, guardati dalle grandi brame. Race d'Abel, tu croîs et broutes Comme les punaises des bois! Razza d'Abele, tu cresci e ti pasci come le cimici dei boschi! Race de Caïn, sur les routes Traîne ta famille aux abois. Razza di Caino, trascina per le strade la tua famiglia disperata. II. Ah! race d'Abel, ta charogne Engraissera le sol fumant! Ah! razza d'Abele, la tua carogna ingrasserà la terra fumante! Race de Caïn, ta besogne N'est pas faite suffisamment; Razza di Caino, la tua missione non è ancora finita; Race d'Abel, voici ta honte: Le fer est vaincu par l'épieu! Razza d'Abele, vergognati: la spada è vinta dallo spiedo! Race de Caïn, au ciel monte, Et sur la terre jette Dieu! Razza di Caino, sali al cielo, e scaraventa sulla terra Dio!
💬«Gran canaglia che è la gente onesta» è invece la chiusa celebre di Le Ventre de Paris (1873) di Émile Zola, dove l'onestà borghese appare come una pura facciata sociale. Il romanzo termina infatti con la sentenza: «Quels gredins que les honnêtes gens!», pronunciata dal pittore Claude Lantier, indignato dall'ipocrisia dei commercianti di Les Halles che, per conformismo e paura, hanno denunciato e fatto arrestare Florent, evaso politico e sognatore idealista. La frase riassume il nucleo morale dell'opera: la contrapposizione fra i "grassi", benestanti e compiaciuti, sostenitori dell'ordine, e i "magri", gli inquieti e i ribelli, portatori di un'altra idea di giustizia. È un epilogo corrosivo che incarna perfettamente lo sguardo disincantato di Zola, e che Croce utilizza come esempio dell'ironia cupa contro la presunta "gente onesta".

Questi due riferimenti non sono soltanto allusioni letterarie: per Croce, essi rappresentano due voci decisive della modernità – quella lirico-metafisica (Baudelaire) e quella naturalistico-sociale (Zola) – che hanno smontato l'antica fiducia nella virtù come dono dell'anima o dello status. Essi denunciano l'ipocrisia del bene convenzionale, l'inconsistenza dell'onestà borghese, la mistificazione del sacrificio. Ma proprio questo "spirito di smascheramento" accentua nell'uomo il dubbio sulla propria bontà e rende urgente la risposta crociana: non la purezza impossibile, né il sospetto universale, ma l'umiltà e la virtù imperfetta, le sole compatibili con la verità storica dell'agire umano.

L'UMILTÀ
Testo : 2/6


E in siffatta angoscia, siamo presi dalla smania di metterci a prova, compiendo qualcosa di straordinario: il che, per fortuna, di rado ci è consentito dal corso placido delle cose, che non si turba per offrire a noi il modo di rassicurarci nella stima e nell'orgoglio di noi stessi. Vittorio Alfieri, che assai soffrí di questo sentimento, e «per quanto si sforzasse a credere e a far credere d'essere diverso dal comune degli uomini, temeva (dice nei suoi Giornali) di essere simigliantissimo», nel suo celebre sonetto-ritratto, confessando di stimarsi «or Achille ed or Tersite», non trova altra pietra di paragone per conoscersi veramente che la morte: «Uom, se' tu grande o vil? Muori, e il saprai». Ma nemmeno la morte è sicura prova, perché gente perversa e vilissima muore talvolta con coraggio, e talvolta uomini buoni si staccano dalla vita con lacrime. La morte dimostra tutt'al piú la forza spirituale che si possiede al momento del morire, e non mai l'intima natura di un carattere.

Quando ci troviamo in quello stato d'ansia morale in cui dubitiamo della tenuta del nostro carattere, ci assale spesso il desiderio impaziente di mettere alla prova noi stessi compiendo qualche gesto fuori dall'ordinario; ma, fortunatamente, la calma abituale della vita raramente ci offre simili occasioni, e le cose seguono il loro corso senza scomporsi per darci modo di ottenere quella conferma che vorremmo, utile a rassicurarci nella buona opinione che abbiamo di noi e nell'orgoglio della nostra virtù. Vittorio Alfieri provò intensamente questo tormento interiore e, pur sforzandosi di credere – e di far credere agli altri – di essere diverso dal resto degli uomini, temeva, come annota nei suoi «Giornali», di essere invece molto simile alla gente comune. Nel suo famoso sonetto autobiografico, dove dice di stimarsi ora come un Achille e ora come un Tersite, arriva a sostenere che solo la morte può servire da vero termine di paragone per conoscere la propria natura: «Uomo, sei tu grande o vile? Muori, e lo saprai». Ma nemmeno la morte è una prova certa, perché accade talvolta che persone perverse e vili affrontino l'ultimo istante con grande coraggio, mentre uomini buoni e retti si separino dalla vita piangendo. La morte rivela, al massimo, la forza d'animo che un individuo possiede nel momento del morire, ma non ne rivela la profondità e la verità del carattere.

🔎 È centrale la psicologia dell'"auto-esame eroico": il soggetto, insicuro della propria fibra morale, vorrebbe compiere un atto eccezionale per "vedersi", per misurarsi contro lo straordinario. Croce inserisce qui il caso emblematico dell'Alfieri, l'uomo dei contrari, che oscilla fra l'immagine titanica di Achille e quella grottesca di Tersite, fra l'eroe epico e il buffone deforme dell'Iliade.
Ma il punto decisivo è la critica al mito romantico della morte come rivelazione: Croce contrasta l'idea che l'ultimo istante riveli l'essenza di un individuo. La morte – dice – riguarda la forza spirituale del momento, non l'intera struttura morale. Vi sono vili che muoiono da coraggiosi, e virtuosi che muoiono in lacrime. È una delle più asciutte confutazioni del mito romantico dell'eroe.

L'UMILTÀ
Testo : 3/6


Anche da questa sollecitudine a saggiare il nostro vero carattere e a rassicurarci sulla sua tempra e saldezza nascono i propositi e le pratiche dell'ascetismo: la fuga dal mondo e dai suoi diletti, la liberazione dai vincoli della carne, la disaffezione dai parenti, dai figliuoli e dagli amici, verso i quali si è bensí pronti a esercitare i doveri comandati in ciascun caso, ma fermi insieme a non impegnare altro di noi stessi, perché non ci accada di compiere per simpatia e piacere quel che si deve compiere solo per dovere: tratto ascetico, che, com'è noto, si ritrova nell'etica kantiana.

Il bisogno di verificare la vera consistenza del nostro carattere e di rassicurarci sulla sua solidità genera anche quei propositi e quelle pratiche che chiamiamo ascetiche: l'allontanamento dal mondo e dai suoi piaceri, il tentativo di scioglierci dai legami sensibili, e persino una sorta di distacco da parenti, figli e amici. Con costoro siamo sì disponibili a compiere i doveri richiesti nelle varie circostanze, ma al tempo stesso ci sforziamo di non lasciar trapelare nulla di più, per timore che un gesto mosso da simpatia o affetto ci induca a compiere per piacere ciò che dovrebbe essere fatto soltanto per senso del dovere. Questo atteggiamento ascetico – è noto – ricompare, sotto altra forma, nella morale di Kant.

🔎 Croce qui polemizza con l'ascetismo come separazione, come gelosa custodia dell'io morale, e disegna un quadro psicologico esatto: l'ascetismo nasce non da spiritualità ma da sospetto, dal timore che l'elemento umano contamini la purezza del dovere.
La paura dell'inclinazione porta a mettere sotto sorveglianza gli affetti, come se l'amicizia, la tenerezza familiare, l'amore fossero "troppo rischiosi" per la nostra impeccabilità morale.
È un tema che richiama Kant: la volontà buona come volontà puramente conforme alla legge. Ma Croce osserva: l'etica kantiana, letta nel suo formalismo, genera la stessa malattia dell'asceta: un moralismo senza vita, privo del calore degli affetti.

L'UMILTÀ
Testo : 4/6


Alla morale kantiana e all'ascetismo in genere è stato risposto che lo scrupolo, in cui esso s'impiglia, ha del sofistico; e che stolta è quella morale che pone a suo fine il perpetuo battagliare contro le umane passioni, delle quali s'intesse la trama stessa della vita e che è lecito combattere solo quando vogliono affermarsi per sé, fuori della morale che le riduce a unità e armonia. E, passando dalla difesa all'offesa, si è detto che la brama di non richiesto eroismo, i propositi ascetici, l'ansia di vivere in meticolosa conformità al dovere, sono, essi stessi, peccati, peccati di raffinato egoismo, perché concepiscono il mondo come l'arena nella quale debba trionfare il nostro io o il teatro sul quale esso possa esibirsi a compiacimento di noi stessi, spettatori delle sue gesta; laddove il mondo ha bisogno non di caratteri perfetti da ammirare in iscena, ma di opere utili, ancorché l'eseguirle «dismaghi l'onestade» e si svolga non senza scosse e macule di debolezze e di errori.

Allo scrupolo eccessivo della morale kantiana e dell'ascetismo, si è replicato che essi cadono in una sottigliezza sofistica; e che è stolta una morale che fa consistere la sua perfezione in una continua lotta contro le passioni, le quali costituiscono la stoffa stessa della vita. Le passioni devono essere contrastate solo quando pretendono di valere per proprio conto, uscendo dall'ordine morale che le unifica e le armonizza. Spingendosi oltre, si è anche affermato che l'ansia di un eroismo non richiesto, le decisioni ascetiche e la meticolosa volontà di conformarsi al dovere sono, in sé, peccati: peccati di un egoismo raffinato, perché immaginano il mondo come un'arena dove il nostro io debba trionfare, o come una scena teatrale sulla quale esso possa esibirsi per la nostra compiacenza, spettatori delle nostre stesse gesta. Ma il mondo non ha bisogno di caratteri impeccabili da contemplare, bensì di opere utili, anche quando la loro esecuzione "offuschi l'onestà" e proceda tra scosse, debolezze ed errori.

🔎 Croce recupera la tradizione anti-ascetica che va da Spinoza ai moralisti settecenteschi e arriva fino a Hegel. Ma introduce un punto originale: l'eroismo cercato è una forma di egoismo spirituale. Chi cerca la perfezione come palcoscenico morale vuole, in fondo, mettere in mostra il proprio io. Insomma, l'asceta vuole essere puro più che fare il bene. Vuole preservare la cristalleria del proprio io, anche a costo di diventare sterile. È un Narciso morale.
Croce rovescia l'immagine: il mondo non è un teatro per l'esibizione di virtù immacolate; è un'officina dove si fanno cose – imperfette, difficili, necessarie – e dove spesso bisogna "sporcarsi" per realizzare opere che valgano. L'uso dell'espressione dantesca "dismaghi l'onestade" (faccia venir meno la virtù, Purg. III,11) è mirabile: fare il bene può anche costare la reputazione; per compiere il bene si può essere costretti a sembrare meno puri, a sporcarsi le mani. Il bene non è mai angelico, e Croce lo ribadisce con una forza quasi nietzscheana.
È il contrario del moralismo da vetrina. La critica è perciò insieme etica e psicologica: il rigorista insegue un ideale impossibile; l'asceta teme le passioni più di quanto ami la vita: entrambi confondono la santità con il gelo interiore. Croce invece prepara il terreno per l'"umiltà" come virtù antinarcisistica: non la purezza del soggetto, ma la sincerità dell'opera.

L'UMILTÀ
Testo : 5/6


Il vero è che quella sollecitudine di perfezione si lega a un già notato concetto di vecchia metafisica, che ha il suo analogo in una stortura etica: nel concetto monadistico dell'individuo, che in etica si atteggia come egoismo. L'«intimo carattere», il «carattere nostro proprio», il nostro «io sostanziale», la gemma fulgida e dura che dovremmo possedere in noi e mettere allo scoperto per conservarla nella sua purezza inalterata, quel che ci distinguerebbe dagli altri tutti o dai molti, dal volgo, non esiste altrove che nella fallace escogitazione delle metafisiche e tra i fumi dell'amor proprio inebriato. Il nostro carattere è insieme non nostro, e quello degli altri è insieme nostro; e ciò che veramente è reale, è sempre universale.

La verità è che questa ansia di perfezione dipende da un concetto già rilevato nella vecchia metafisica, e trova il suo corrispettivo, in campo morale, in una deformazione etica: l'idea monadistica dell'individuo, che in etica si traduce in egoismo. L'"intimo carattere", il "carattere nostro proprio", il nostro presunto "io sostanziale", quella sorta di gemma lucente e dura che dovremmo custodire dentro di noi e mostrare al mondo per mantenerla pura e incontaminata, ciò che dovrebbe distinguerci da tutti o almeno dalla massa, non esiste se non nell'arbitraria costruzione delle metafisiche e tra le nebbie di un amor proprio ubriaco di sé. Il nostro carattere non è soltanto nostro, e quello degli altri non è soltanto loro: in realtà, ciò che davvero esiste è sempre universale.

🔎 In questo passo, Croce smonta radicalmente l'idea romantica – o tardo-metafisica – di un io compatto, integro, unitario, che si possa difendere come una sostanza preziosa; l'idea di un "nocciolo" personale puro, compatto, autosufficiente: l'io-monade è un mito metafisico alimentato dall'orgoglio.
Ogni carattere individuale è già, in sé, un intreccio di universalità: storia comune, linguaggio comune, forme condivise del sentire e dell'agire. Chiamarlo "monadistico" significa evocare la monade leibniziana: un ente chiuso, indivisibile, autosufficiente. Applicata all'etica, questa idea si converte in superbia morale: l'illusione di un carattere puro e distinto, dotato di una sua essenza propria e immutabile.
Croce ribalta questa immagine: non esiste un io privato che si mantenga integro fuori dal mondo; il nostro carattere è sempre un intreccio con la vita degli altri; la realtà morale è sempre universale, mai individualistica.
È un punto nodale della sua etica antimonadistica e, al tempo stesso, una critica anticipatrice di molte psicologie del sé del Novecento: l'identità non è una gemma, ma un processo relazionale e storico.

📌 Questa è una delle intuizioni più profonde della filosofia morale di Croce: l'io sostanziale non esiste; il carattere "proprio" non esiste; l'individuo è sempre universale.
È l'antimetafisica idealistica: nessuno ha un io "proprio" da difendere. Siamo sempre impastati dell'universale umano, sempre in relazione, sempre storici, sempre plasmati da circostanze. È sorprendente, in questo passo, la contiguità di Croce con la psicologia contemporanea: il sé non è monade, è flusso.

L'UMILTÀ
Testo : 6/6


Se al peccato del monadismo etico si dà il nome, che gli spetta, di superbia, la virtú che gli si contrappone, sorgente dal seno della filosofia antimonadistica e idealistica, è quella dell'umiltà. La quale per l'appunto non consiste in altro che nella coscienza della non appartenenza delle nostre azioni a un'entità o a una sostanza individuale, ma alla realtà tutta, che ne varia di continuo le condizioni; sicché nessuno può tenersi sicuro come in una ròcca e guardare agli altri come a esseri di diversa e inferiore natura: da qualsiasi di quegli esseri può giungere talvolta una parola o un atto che ci faccia arrossire al paragone, e ciascuno può ritrovarsi in condizioni di aver bisogno d'indulgenza. L'umiltà converte il tormentoso scrupolo della virtú superba nella vigile coscienza, che attende all'opera, consapevole delle difficoltà e dei pericoli, e, umiliandosi nell'opera, si esalta solo in essa.

Se al vizio del monadismo etico si attribuisce, come è giusto, il nome di superbia, la virtù che gli si oppone – e che nasce dall'orizzonte antimonadistico e idealistico – è l'umiltà. Essa consiste precisamente nel riconoscere che le nostre azioni non appartengono a un io o a una sostanza individuale separata, ma alla realtà complessiva, che muta continuamente le condizioni in cui operiamo. Perciò nessuno può ritenersi saldo in una rocca, guardando gli altri come creature di specie diversa o inferiore: da chiunque può venire una parola o un gesto che ci faccia arrossire per il confronto, e chiunque può trovarsi, talvolta, nella necessità di ricevere indulgenza. L'umiltà trasforma lo scrupolo tormentoso della virtù superba in una consapevolezza vigile, che si dedica all'opera, attenta alle sue difficoltà e ai suoi rischi, e, mentre si abbassa nel lavoro concreto, trova in esso la sua unica forma di elevazione.

📌 Questo passo è a nostro avviso uno dei vertici dell'etica crociana, un luogo in cui la sua metafisica della realtà come vita universale diventa immediatamente morale. Qui vibra il grande tema della "moralità come lavoro", come atto storico concreto, dove l'io non è il protagonista ma lo strumento. È un'idea che dialoga idealmente con Goethe ("Werd' wer du bist": "diventa ciò che sei"), con Hegel (l'individuo come momento dello Spirito), e persino con Spinoza (l'umiltà come affetto che nasce dalla conoscenza adeguata della nostra posizione nel tutto), nonché col Vangelo ("perché vanti te stesso, o uomo?").

Questi gli elementi di rilievo:
1. La superbia come vizio dell'io monade

La "superbia" non è qui il peccato teologico, ma l'illusione intellettuale di chi crede di possedere un "carattere proprio", un'essenza morale da custodire come un diamante. È la stessa superbia che alimenta l'asceta e il rigorista: la convinzione di essere un io separato, dotato di autonomia assoluta.

2. L'umiltà come presa di coscienza filosofica

Per Croce, l'umiltà è una conseguenza dell'idealismo: noi siamo momenti della realtà, non entità isolate. Le nostre azioni appartengono al tutto, non al nostro ego. L'umiltà è dunque una virtù filosofica prima ancora che morale: è il riconoscimento della non proprietà del bene che facciamo.

3. Nessuno è una roccaforte
Acuto il richiamo all'instabilità delle condizioni reali: ciò che oggi sembra sicurezza domani può diventare fragilità. Tutti, prima o poi, avranno bisogno d'indulgenza; e chi oggi giudica, domani può arrossire.

4. L'opera come luogo dell'elevazione

L'umiltà non è rinuncia alla forza: è conversione della forza. La virtù superba vuole controllare la vita, la virtù umile la serve nel suo farsi. E si eleva non per una purezza astratta, ma per la fedeltà all'opera.
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DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA*
Testo : 1/11


Sarebbe da presumere, posta l'indulgenza di cui gli uomini tutti per l'umana loro fragilità debbono provare bisogno, che il numero dei rigoristi etici fosse scarsissimo; e invece li si incontra a ogni svolto di strada. Con gran fastidio della gente di buon senso, con vivo accoramento delle anime candide e pie, essi stanno sempre lí, pronti a spiegare, agli occhi che non vorrebbero vederli, i rozzi rovesci dei tessuti dei quali si era ammirata la bellezza; sempre vigili a informarvi sulle debolezze degli uomini lodati per forti, sulle piccole viltà dei reputati coraggiosi, sui motivi utilitarî e spesso meschini che hanno guidato azioni che erano parse virtuose.
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* Benedetto Croce. Difesa della virtù imperfetta. In: Etica e politica. Laterza, 1956, p. 107-111.

Se si considerasse quanta indulgenza tutti gli uomini sono costretti a invocare, proprio perché portatori di personali debolezze, si sarebbe spinti a pensare che i moralisti inflessibili fossero molto pochi. E invece basta affacciarsi alla vita reale per incontrarli a ogni angolo. Con grande fastidio di chi ha buon senso e con autentico dolore di chi è sincero e mite, essi non mancano mai: sempre pronti a mostrare il rovescio ruvido dei comportamenti che sembravano ammirevoli, a segnalare le fragilità di coloro che erano stimati forti, le meschinità di chi era ritenuto coraggioso, o le motivazioni basse e utilitarie che avrebbero guidato azioni apparse nobili e virtuose.

🔎 Croce introduce qui la tipologia del rigorista morale, e lo fa con una punta di ironia quasi settecentesca, alla Voltaire.
L'argomento è semplice e devastante: data la fragilità universale, ci si aspetterebbe un po' di misericordia reciproca; invece troviamo censori dovunque.
La figura del "rigorista" è quella del disincantatore permanente, di colui che si compiace nell'atto di "girare il ricamo", nel mostrare il retro mal cucito dell'azione altrui: "Guarda il rovescio del ricamo!". Non è un osservatore del bene, ma un genealogista del difetto. La sua arma è lo smascheramento, e la sua postura è quella del "sapere amaro": non costruisce, rosicchia.
Croce i rigoristi li detesta: li giudica non cattivi, ma nocivi, perché sottraggono fiducia alle azioni buone, avvelenano la percezione morale della comunità e, soprattutto, guardano alle persone attraverso il prisma del sospetto. La sua è una critica al moralismo in quanto negazione del reale, invece che custodia del bene.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 2/11


Nel corso della presente guerra, essi si son dati la cura di consolarci, rammentandoci, caso mai ce ne fossimo scordati, che non esistono eroi in guerra; che il soldato va innanzi perché non può andar indietro; che affronta la morte perché è ridotto di solito in tale stordimento d'anima e di corpo che vita e morte gli riescono indifferenti; che non il dovere ma la vanità è stata la molla di certi gesti sublimi; e via dicendo. E il peggio è che, per lo piú, tutte le cose che essi dicono sono, prese una per una, incontestabili e vere; e tuttavia quei dicitori di verità, invece di rischiararvi e rianimarvi, che è il natural effetto di ogni serio detto di verità, vi abbuiano la mente e opprimono l'anima, e s'intravvede vagamente che tutto ciò che dicono è, sí, tutto vero, ma anche è tutto falso.

Durante questa guerra, i rigoristi non hanno mancato di propinarci la loro insolita forma di "conforto": ci hanno ricordato – qualora ce ne fossimo dimenticati – che in guerra non esistono veri eroi; che il soldato avanza solo perché non ha modo di ritirarsi; che affronta la morte perché spesso è talmente stordito, nel corpo e nell'anima, da non distinguere più tra vivere e morire; che non il dovere ma la vanità sarebbe la molla segreta di certi gesti sublimi; e così via. Quel che è peggio è che, prese isolatamente, molte delle loro affermazioni sono effettivamente innegabili; e tuttavia, invece di rischiarare e rinvigorire – come ogni verità autentica dovrebbe fare – queste "verità" ottenebrano lo spirito e opprimono l'animo. Si intuisce allora che tutto ciò che dicono è, sì, vero... ma anche completamente falso.

🔎 Qui Croce compie un gesto critico di fine sottigliezza: distingue verità descrittiva da verità morale; perché una verità può essere psicologicamente vera, ma moralmente falsa. Le affermazioni dei rigoristi sono psicologicamente persuasive certo, il soldato può essere costretto, obbedire alla disciplina, oppure può essere stremato ma ciò non annulla il valore della sua condotta.
Il rigorista scambia l'analisi causale per giudizio morale. E una verità che spegne la fiducia, dice Croce, non è verità morale: è un'oscurità travestita da lucidità.
L'ossimoro crociano "tutto vero e tutto falso" è potentissimo. È la falsa verità che si limita a rivelare la miseria, senza vedere la grandezza. E allora i rigoristi della guerra diventano, per Croce, gli stessi che nella vita civile smontano ogni atto virtuoso riconducendolo ai suoi motivi utilitari: l'uomo avanza non per coraggio, ma perché costretto; compie un gesto buono non per il bene, ma per vanità; si sacrifica non per dovere, ma per un impulso istintivo.
Sì, può essere vero. Ma e qui sta la sua puntuale intuizione è un vero che non spiega la moralità delle azioni, ma solo il loro lato meccanico o psicologico. Il rigorista non capisce che il bene non nasce dal vuoto, ma proprio dalla mischia degli impulsi, e che ridurre tutto a motivazioni basse vuol dire negare la capacità dell'essere umano di trascendersi attraverso l'atto.
Questa è una perla crociana: la verità morale non è descrittiva, è valutativa.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 3/11


Infatti, a che cosa menano, in conclusione, le loro parole? Alla negazione della realtà del bene? Ma l'animo umano, in ogni suo moto, afferma questa realtà, che è presupposto di ogni suo operare. A un ideale cosí alto di virtú che nel mondo non si trova mai? Ma un ideale, che sia fuori dal mondo, è vacua immaginazione. A biasimare il vile presente e a esaltare il passato glorioso, o a condannare passato e presente nella visione di un fulgido avvenire da raggiungere? Ma nel presente operano le stesse categorie che nel passato e nell'avvenire, e la realtà è sempre una. Dunque, non menano a niente, e perciò sono certamente false.

In definitiva, dove conducono davvero le affermazioni dei rigoristi? Forse alla negazione dell'esistenza stessa del bene? Eppure la coscienza umana, in ogni suo movimento, riconosce come dato originario proprio quella realtà. O intendono innalzare un modello di virtù talmente elevato da non trovar mai riscontro nella vita concreta? Ma un ideale che non abbia radice nel mondo è solo una fantasia vuota. O vogliono forse screditare il presente per celebrare un passato magnificato, oppure svalutare tanto il passato quanto il presente immaginando un avvenire radioso? Ma le forme della realtà sono identiche in ogni tempo: ciò che vale oggi valeva allora e varrà domani. Poiché dunque tali discorsi non approdano a nulla, risultano inevitabilmente discorsi falsi.

🔎 Croce smonta con una lucidità quasi chirurgica l'intera impalcatura mentale dei rigoristi. Ne isola tre sbocchi possibili negare il bene, postulare un ideale astratto, fuggire nel passatismo o nel futurismo e li dichiara tutti sterili perché sradicati dalla concretezza dell'azione morale.
È uno dei luoghi più hegeliani dei Frammenti: la morale, per essere vera, deve appartenere al reale; ciò che non incide nel mondo è fantasia, autoinganno, estetismo etico. L'idea che la realtà sia "una", identica nelle sue categorie attraverso i tempi, è perciò un monito contro ogni nostalgia e contro ogni utopia deteriore. L'atto morale non vive in un altrove, ma nel presente storico, con tutte le sue contraddizioni.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 4/11


Usando ai rigoristi etici quella carità e quella giustizia che essi non usano verso il prossimo, taceremo sulle motivazioni psicologiche del loro censurare, che sono spesso assai basse, e ci restringeremo ad additare l'errore intellettuale, che vizia la loro mente: l'immagine della virtú perfetta, della virtú che, per essere veramente tale, dovrebbe sorgere come di scatto e muoversi rettilinea, senza ondeggiamenti, senza cadute, senza transazioni, e, pura nel suo sorgere, pura nel suo attuarsi, si presenterebbe alfine, come un ginnasta o un funambolo che abbia eseguito il salto mortale o altro gioco periglioso, ai loro critici sguardi per ricevere, col riconoscimento dell'incensurabilità, l'austera approvazione.

Sforzandoci di usare verso i rigoristi quella misura di benevolenza e di equità che essi non applicano agli altri, tralasceremo di indagare le motivazioni psicologiche – spesso tutt'altro che nobili – che alimentano il loro spirito censorio, e ci limiteremo a indicare l'errore concettuale che altera il loro giudizio: essi si formano l'idea di una virtù perfetta, di una virtù che, per meritare questo nome, dovrebbe scaturire immediatamente, procedere diritta senza incertezze né cedimenti, non conoscere compromessi, e mostrarsi infine, incontaminata tanto nel nascere quanto nell'atto di compiersi, davanti ai severi occhi dei giudici come un acrobata che abbia compiuto impeccabilmente un difficile esercizio, pronto a ricevere l'approvazione che ne sancisce l'impeccabilità.

🔎 Croce concentra qui la critica decisiva: il rigorista non sbaglia solo per cattivo carattere, ma per cattiva filosofia. L'errore è immaginare la virtù come meccanismo puro, come gesto istantaneo e perfetto, simile a un numero da circo che si dà una volta per tutte e che deve risultare "senza macchia".
Questa concezione, che pretende purezza e rettilineità, è esattamente l'opposto della vita morale: processuale, combattuta, intermittente, intrisa di mediazioni.
La metafora dell'acrobata non è soltanto satirica: serve a denunciare l'illusione estetizzante di chi vuole una virtù esposta su un palcoscenico e valutabile "a colpo d'occhio". Ma la virtù, per Croce, non è mai uno spettacolo: è un'opera che nasce dalla lotta, dall'imperfezione, dal tempo.
Una delle immagini più potenti del Croce morale: la virtù perfetta è meccanismo; la virtù imperfetta è vita. Si sente una eco hegeliana, ma anche un ricordo della psicologia romantica: la vita come contraddizione.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 5/11


Bellissima o bruttissima immagine, questa, secondo gli aspetti dai quali si considera: bellissima, cioè, come idea di un meccanismo, ma bruttissima e ripugnante in quanto vuol essere quella di un organismo vitale; bellissima come astrazione, ma bruttissima come realtà; bellissima come inesistente per chi ha il cattivo gusto di amare l'inesistente, ma bruttissima per chi nel qualsiasi oggetto del suo amore richiede, innanzi tutto, questa piccola dote: l'esistenza.

L'immagine della virtù perfetta – quella che i rigoristi pretendono lineare, pura, priva di oscillazioni – può apparire splendida o orrenda a seconda del punto di vista: splendida come modello meccanico, ma terribile quando pretende di rappresentare un organismo vivente; splendida come astrazione, ma intollerabile come realtà concreta; splendida per chi prova gusto per ciò che non esiste, ma detestabile per chi nel proprio oggetto d'amore richiede almeno una cosa fondamentale: che esista davvero.

🔎 Qui Croce si diverte, e si sente. L'ironia è tagliente, quasi teatrale: quell'alternanza "bellissima/bruttissima" è un gioco di luci, un movimento retorico che smaschera l'assurdità di chi ama l'ideale astratto più della vita reale.
Il bersaglio è netto: l'immagine della virtù perfetta è meccanismo, non vita. È un "oggetto ideale" in senso platonico, ma come ogni platonismo moralistico diventa una caricatura della vita morale, perché sottrae alle azioni il loro calore, il loro attrito, la loro umanità.
La frase finale, poi, è deliziosa: ciò che è inesistente può essere "bellissimo" per chi ha "il cattivo gusto di amare l'inesistente". Questa definizione dei rigoristi come amatori dell'irrealtà è di una modernità feroce. Croce sta dicendo: se ti innamori della purezza assoluta, ti innamori di un fantasma – e la vita non è un fantasma.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 6/11


La vita, si sa, non è perfetta, appunto perché è vita, cioè svolgimento e contrasto; e perfetto è solo il non vivente e morto, privo di contrasti. Su che e da che sorgono il proposito e la volontà morali? Da quell'immaginario scatto nel vuoto, o non invece sul tronco degli affetti particolari, delle passioni, dalla calda e grassa e terrena vita, della quale non sono già negazione, ma forza che la raccoglie e l'innalza? Sorgono cosí solamente, e perciò sorgono lottando, e la lotta è talvolta trepidazione, ondeggiamento, cedimento, caduta, sconfitta, e nondimeno anche in ciò è lotta e non inerzia, e perciò dalla sconfitta si torna alla riscossa, e si riguadagna terreno, e si progredisce, e si va piú in alto, dove si ripete la vicenda delle sconfitte e delle riscosse, e pur si continua a salire.

La vita, com'è noto, non può essere perfetta, proprio perché è vita, cioè sviluppo e conflitto; solo ciò che è morto e privo di contrasti può essere perfetto. Da dove nascono, allora, il proposito e la volontà morali? Non da un salto immaginario nel vuoto, ma dalle passioni e dagli affetti particolari, dalla vita calda, robusta e terrena, che essi non negano affatto, ma che anzi raccolgono e innalzano. Proprio perché sgorgano in questo modo, essi sorgono lottando: e la lotta comporta esitazioni, oscillazioni, cedimenti, cadute, sconfitte; tuttavia, persino in queste vi è lotta e non inerzia, e perciò dalla sconfitta si ritorna alla riscossa, si recupera terreno, si avanza, e si sale più in alto, dove si ripete la sequenza di cadute e riprese, e nondimeno si continua a salire.

🔎 Eccolo il Croce più vitale, più "biologico", più anti-ascetico. Qui il cuore della sua etica pulsa fortissimo.
La vita morale non procede per salti angelici, ma per radicamento: affetti, passioni, ferite, desideri, stanchezze. Non è una fuga, ma una trasformazione: la volontà morale non cancella la vita, la raccoglie, la orienta, la eleva.
È un'idea potentemente anti-kantiana (nel senso stereotipato del kantismo rigido), e al tempo stesso profondamente idealistica: la moralità non è negazione della natura, ma la sua forma superiore.
Croce esprime a questo punto una verità psicologica straordinaria: la virtù è lotta, non risultato; oscillazione, non rettilineo; ricominciare, non arrivare. Virtù intesa come processo, non come stato. È un'idea quasi esistenzialista: non si è buoni, si diventa. E l'immagine del "salire con cadute" è fortemente moderna, anti-eroica e profondamente umana. È una frase da scolpire: la vita morale è un movimento senza posa, un salire che include cadute necessarie, come l'alpinista che scivola ma continua a inerpicarsi.
È anche una risposta ai moralisti severi: se cerchi la perfezione, cerchi la morte; se accetti il conflitto, vivi.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 7/11


Talvolta il nemico col quale si combatte, le passioni utilitarie, sono cosí vigorose e violente che non vale prenderle di fronte, e bisogna transigere con esse, e scendere sul loro stesso terreno, e indebolirle e piegarle contrapponendo le une alle altre. Tutti fanno a questo modo, se ne rendano o no conto, quando nel corso dei loro migliori propositi si valgono come di stimoli interiori della lode che otterranno o di altri vantaggi personali, o si frenano con l'immagine della pubblica vergogna, o pensano al sorriso della donna amata, o, magari, alla confusione dell'uomo ostile, costretto a riconoscere la fortuna e il merito.

Talvolta le passioni orientate all'utile contro cui si lotta sono così forti e tumultuose da rendere inefficace uno scontro diretto; in questi casi occorre trattare con esse, scendere sul loro stesso terreno e cercare di fiaccarle e piegarle usando le une contro le altre. Tutti, consapevolmente o no, adottano questa strategia quando, nel perseguire i loro propositi migliori, si lasciano stimolare dall'idea della lode che riceveranno o di altri benefici personali, oppure si frenano pensando alla vergogna pubblica, o si incoraggiano immaginando il sorriso della persona amata, o persino la mortificazione dell'avversario costretto a riconoscere il loro valore e la loro fortuna.

🔎 Questo passo offre una intuizione sottile e recupera una grande lezione della morale classica (da Aristotele a Montaigne): le passioni vanno guidate, non negate. La morale non nasce dalla loro soppressione, ma dal loro impiego intelligente.
La vita interiore non è un duello cavalleresco fra un io etereo e pulsioni oscure: è un sistema di forze che si fronteggiano, si limitano, si utilizzano. E la volontà etica diventa forte proprio quando è capace di orchestrare queste energie "basse" mettendole al proprio servizio.
L'immaginazione morale – l'attesa di lode, il timore della vergogna, la speranza di un sorriso, perfino la piccola rivincita contro un nemico – non è un tradimento del dovere, ma un modo astuto e profondamente umano per far lavorare il desiderio là dove il puro dovere non basterebbe.
Il moralismo astratto che pretende atti "puri" ignora la dinamica reale dell'animo umano; qui Croce porta la morale dentro la vita, non contro la vita.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 8/11


Quale meraviglia che pel soldato in guerra siano necessarie minacce di castighi, quando perfino l'uomo che è tratto agli studi e all'arte da prepotente vocazione, non potendo in ogni tempo beneficiare di quella spinta iniziale, ricorre a consimili espedienti, e Vittorio Alfieri, nonostante il tragico furore che l'animava, per poter durare alle lunghe fatiche delle sue tragedie, si radeva la chioma per costringersi a non uscir di casa o si faceva legare dal servo sulla sedia? Sono transazioni, senza dubbio, ma nobilitate in certo modo dal fine che le guida; e sono direttamente l'opposto delle «direzioni d'intenzione» della morale gesuitica, perché con queste si accomodava l'ideale morale agli affetti e interessi particolari, e con esse, invece, si adoperano questi a servigio di quello.

Non sorprende, allora, che per il soldato in guerra siano necessarie persino minacce di punizioni, quando financo l'uomo che si dedica agli studi o all'arte per irresistibile vocazione, non potendo sempre contare sull'impulso iniziale, ricorre a espedienti simili; e Vittorio Alfieri, nonostante il furore tragico che lo animava, per riuscire a sostenere le lunghe fatiche delle sue tragedie, si radeva i capelli per non uscire di casa e si faceva legare dal servo alla sedia. Si tratta, certo, di compromessi; ma in qualche modo nobilitati dal fine che li guida. Essi sono poi l'esatto contrario delle "direzioni d'intenzione" della morale gesuitica, perché queste adattavano l'ideale morale agli interessi e agli affetti particolari, mentre tali compromessi piegano gli interessi e gli affetti a servizio dell'ideale.

🔎 Il brano porta a compimento la concezione crociana delle "transazioni morali". Il fine non giustifica ogni mezzo, ma ne orienta il valore: un espediente può essere segno di debolezza, oppure strumento di fermezza, a seconda della direzione in cui viene impiegato.
Il soldato minacciato di pena, il poeta che si lega alla sedia, l'artista che si disciplina con trucchi quasi puerili: tutti testimoniano che la volontà non è mai una forza costante, e che la moralità vive anche di strategie laterali, di astuzie psicologiche, di piccoli vincoli autoimposti.
La contrapposizione con il gesuitismo è decisiva: la directio intentionis cerca di giustificare un atto discutibile modificandone l'intenzione; la "transazione morale", invece, usa gli elementi meno puri dell'animo per sostenere un fine genuinamente alto.
È una distinzione cristallina, che sottrae la morale sia al casualismo manipolatorio sia all'astrattezza kantiana: la virtù cresce attraverso il combattimento, non in un laboratorio sterile.
Discriminare fra: accomodare l'ideale agli interessi (gesuitismo) e usare gli interessi al servizio dell'ideale (moralità vera), è una distinzione sottile e geniale.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 9/11


Come transazioni, come un «bere» nel dilemma del «bere o affogare», servono nella vita morale da espedienti transitorî, da rimedî nell'infierire dei malanni, da aiuti per superare cattivi passi, e lo sforzo dell'educazione morale si travaglia nell'assodare e accrescere il dominio della volontà etica, nel crearne l'abito o virtú, e rendere sempre piú raro e tenue il ricorso agli espedienti, e nel cangiare la transazione, che è alleanza tra l'alto e il basso dell'uomo, in subordinazione del basso all'alto. Coloro, che a ciò riescono, sono i degni, i probi, gli eroici, i santi.

Le transazioni morali – veri e propri "espedienti di sopravvivenza" – funzionano, nella vita etica, come rimedi provvisori nei momenti più difficili: piccoli aiuti che permettono di superare un passaggio pericoloso, di non soccombere quando le passioni o le circostanze si fanno troppo dure. Il compito dell'educazione morale consiste nel consolidare e ampliare il dominio della volontà etica, nel trasformarlo in abito stabile, così da rendere sempre più raro e meno necessario il ricorso a questi espedienti; e, soprattutto, nel mutare la transazione – che è pur sempre una sorta di patto fra ciò che è più elevato e ciò che è più basso nell'uomo – in un rapporto di subordinazione del basso all'alto. Coloro che raggiungono questo equilibrio sono i meritevoli, gli onesti, gli eroici, i santi.

🔎 Qui la riflessione morale raggiunge uno dei suoi vertici. L'idea è limpida: la transazione non è una colpa, è un ponte che permette alla volontà etica di non naufragare. Ma il fine dell'educazione morale è trascenderla, non abolirla: trasformare il compromesso in un progressivo dominio della parte più alta della persona sulla parte più bassa.
L'immagine del "bere per non affogare" è efficace: la nostra vita etica non è mai un cammino puro e lineare, ma una serie di guadi difficili, dove talvolta occorre accettare un aiuto imperfetto per non sprofondare.
L'eroe e il santo, secondo Croce, non sono coloro che non lottano, ma coloro che hanno fatto della lotta un'abitudine, e che dall'alleanza fra debolezza e forza hanno tratto una struttura stabile dell'anima.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 10/11


Ma tali essi sono per gli altri, tali appaiono agli occhi altrui, e perciò ogni eroismo, ogni santità, ogni virtú ha della leggenda. Nella loro coscienza, essi non si vedono cosí, e dove altri non scorge lacune, essi ve le scorgono; dove altri non sente impurità, essi le sentono e ne soffrono; dove altri non avverte debolezze e viltà, essi le avvertono e se ne vergognano. Da ciò gli scrupoli e rimorsi dei santi, l'umiltà dei virtuosi, la modestia degli eroi.

Coloro che raggiungono questa superiorità morale lo sono solo per gli altri: agli occhi del mondo appaiono come eroi, santi, figure esemplari; e per questo ogni forma di virtù alta, di eroismo, di santità finisce sempre per assumere un'aura leggendaria. Nella loro intimità, però, essi non si percepiscono così: là dove gli altri non vedono difetti, loro li scorgono; là dove gli altri non avvertono impurità, loro le sentono e ne soffrono; e là dove gli altri non notano debolezze e viltà, loro se ne accorgono e se ne vergognano. Da qui nascono gli scrupoli e i rimorsi dei santi, l'umiltà dei virtuosi, la modestia degli eroi.

🔎 È un moto psicologico finissimo: la virtù autentica non è mai compiaciuta, non si contempla allo specchio. Chi vive veramente secondo la volontà etica non si vede come "virtuoso": avverte sempre la sproporzione tra ciò che avrebbe voluto essere e ciò che è riuscito a fare.
Per questo, Croce afferma che tutta la grande virtù ha qualcosa della leggenda: ciò che gli altri ammirano è sempre una costruzione, un'immagine semplificata e idealizzata della complessità reale.
L'eroe sente le crepe che gli altri non notano; il santo percepisce impurità che non appaiono; il virtuoso soffre per debolezze invisibili. La vera grandezza morale consiste proprio in questa intima percezione del limite, in questa continua consapevolezza della distanza tra ideale e atto. È per questo che la virtù autentica è umile: perché conosce se stessa a fondo.

DIFESA DELLA VIRTÙ IMPERFETTA
Testo : 11/11


Abbiamo detto «agli occhi altrui», cioè degli uomini dotati di buon senso e indulgenza, dei candidi e pii; ma non intendevamo dire agli occhi dei censori rigoristi, che, per loro conto, non vedono o non sospettano se non appunto lacune, debolezze, impurità, e si stimano acutissimi, laddove sono ottusissimi, se ottusità è perdere di vista l'azione per l'incidente, il grande per il piccolo, il dramma dell'umanità che crea il mondo, per le stanchezze, i vacillamenti e le titubanze che accompagnano ogni potenza creatrice. Ma essi cosí giudicano, perché sono in possesso di quell'ideale, costrutto di saldissimo ed elastico acciaio, della virtú perfetta e pura; e noi che agli automi d'acciaio preferiamo gli uomini di carne e sangue, abbracciamo invece, venerandola, la sola virtú che sia reale e sia virtú, la virtú imperfetta.

La perfetta virtù, vista dagli uomini indulgenti e sensibili, può apparire agli occhi degli altri come eroismo, santità, integrità assoluta; ma questo giudizio vale solo per coloro che sanno guardare con benevolenza e comprendere la complessità dell'agire umano. Diverso è lo sguardo dei rigoristi: costoro non si accorgono dell'opera grande nel suo insieme, non percepiscono la trama viva della creazione morale, e vedono ovunque soltanto difetti, incertezze, impurità. Credono di essere sottili giudici, mentre sono ciechi alla sostanza e incapaci di distinguere ciò che conta davvero da ciò che è marginale. Questo avviene perché si sono impadroniti dell'ideale astratto e rigido della virtù perfetta, un ideale d'acciaio, senza vita. Chi invece preferisce gli esseri umani reali, con la loro carne e il loro sangue, onora l'unica virtù autentica: la virtù imperfetta.

🔎 Siamo alla sigillatura impeccabile dell'intero frammento: Croce porta la sua difesa della virtù imperfetta fino al gesto conclusivo, che è quasi una benedizione laica.
La distinzione fra "gli occhi altrui" e "gli occhi dei rigoristi" è cruciale. Gli "altri" sono gli uomini di buon senso, capaci di compassione e di visione lunga: coloro che sanno guardare alla vita morale come a un organismo pulsante, non come a una statua di marmo. I rigoristi, invece, sono vittime di un paradosso: credono di esercitare un'analisi acuta, ma in realtà esercitano un'ottusità di fondo, perché vedono soltanto il dettaglio e perdono di vista l'insieme.
È un punto profondamente hegeliano: la verità morale è sempre totalità, non la somma di gesti isolati. L'azione si giudica per il percorso, non per gli inciampi.
L'immagine dell'"ideale d'acciaio" è straordinaria: richiama il meccanicismo delle vecchie morali ascetiche, dei sistemi rigidi, della "purezza" concepita come impermeabilità alla vita. Croce oppone a questo ideale freddo una morale calda, storica, dinamica, dove la virtù è sempre fatta di compromessi, lotte, ricadute, rialzate, passioni domate e passioni utilizzate.
Infine, la chiusa è un piccolo manifesto etico: chi ama gli uomini reali, li ama nella loro miscela di grandezza e debolezza. E proprio questa miscela fa nascere la sola virtù che esista: la virtù imperfetta.
È un punto che può sembrare semplice, ma è radicale: è la liberazione dell'etica da ogni moralismo, da ogni pretesa di purezza, da ogni culto dell'io, da ogni monade morale. È la vittoria della vita sulla dottrina.

📌 Così, i due frammenti, letti insieme, disegnano una sola etica: un'etica del movimento, dell'opera, della concretezza. L'umiltà del primo testo e la virtù imperfetta del secondo non sono due disposizioni, ma la medesima postura spirituale. Entrambe rifiutano l'idolo della moralità pura; entrambe guardano alla vita morale come a una lotta che si svolge dentro la storia, non sopra di essa; entrambe ricordano che il bene è opera, mai teatro; che la sincerità consiste nel non illudersi di essere immuni dalla fragilità, ma nel riconoscere che proprio quella fragilità è ciò che ci rende capaci di bene.

In fondo, Croce rivendica una vera e propria antropologia della mitezza forte: non l'ingenuità che non vede il male, ma la saggezza che lo riconosce e lo supera agendo; non l'eroismo ostentato, ma la fatica tenace del quotidiano; non l'assoluto, ma il concreto. È un'etica sobria e alta, che non mitizza l'uomo ma gli restituisce dignità: non siamo monadi, non siamo automi, non siamo eroi di bronzo, e tuttavia siamo capaci di costruire, ogni giorno, qualcosa che meriti di essere chiamato bene. La virtù imperfetta non è un ripiego: è la forma reale della grandezza umana, la sola che non tradisca la vita.

Fonti dei testi

[ddf, xii-2025]